Quiet Quitting: una lettura comportamentaleTempo di lettura stimato: 17 min

di Francesca Bellante

“È una verità universalmente riconosciuta che un giovane provvisto di ingente tempo libero debba essere alla ricerca di un impiego. Per quanto al suo primo apparire su LinkedIn si sappia ben poco dei sentimenti e delle opinioni di quest’uomo (o questa donna), tale verità è così radicata nella mente delle aziende dei dintorni, da considerarlo legittima proprietà dell’una o dell’altra delle loro filiali.”

Queste parole vi sono familiari? Sì, d’accordo, l’incipit di Orgoglio e Pregiudizio non era proprio così, ma a ben guardare non siamo andati poi tanto lontani. Avremmo cambiato sì e no cinque parole.

Ma che cos’hanno in comune una delle storie d’amore più classiche della letteratura inglese e il ben meno romantico rapporto contrattualizzato tra datore di lavoro e impiegato?

Effettivamente, per chi guarda il mondo attraverso le lenti del “quiet quitting”, ben poco. 

L’articolo di oggi parlerà proprio di questo: di come (e, nella speranza di non peccare di troppa arroganza, del perché) sempre più persone stiano abbandonando la visione del lavoro come principale fonte di auto-affermazione e gratificazione personale tipica della hustle culture a favore di un approccio diverso, che vede il lavoro prevalentemente come un mezzo per raggiungere un fine.

Nascita e declino della hustle culture

L’espressione “hustle culture” indica uno stile di vita e un insieme di comportamenti basati sulla convinzione che il lavoro e la carriera abbiano (e debbano avere) l’assoluta priorità nella vita di una persona, anche a discapito della propria vita privata, sociale, dei propri hobby e interessi. In sostanza, la totale negazione dell’equilibrio tra vita e lavoro (Morgan, 2016; Robinson, 2019), pubblicizzata e rinforzata da messaggi e metafore motivazionali (Christina e Shasita, 2022).

La nascita della hustle culture si fa, solitamente, risalire attorno agli anni ‘70-’80 (sebbene non vi siano fonti “ufficiali” a segnarne l’origine). Tuttavia, è con l’avvento di internet che il culto dell’overwork ha raggiunto la sua massima espansione, anche grazie a influencer e figure di spicco che ne hanno fatto il proprio marchio di fabbrica (sì, parliamo di Elon Musk. Lo fanno tutti, perché noi no?).

Com’è facile immaginare, portato all’estremo, questo stile di vita può sfociare in una vera e propria dipendenza da lavoro, con gravi conseguenze per la salute sia fisica che psicologica dell’individuo (Sussman, 2012). Prima tra tutte, il rischio di burnout, una “sindrome derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo” (definizione dell’OMS) caratterizzata da:

  • sensazioni di esaurimento energetico o stanchezza;
  • aumento della distanza mentale dal proprio lavoro; negatività o cinismo legati al proprio lavoro;
  • riduzione dell’efficacia professionale.

Dall’amore incondizionato e totalizzante per il proprio lavoro si passa a un generale “disamoramento” e alla perdita di interesse. Verrebbe quindi da chiedersi: se questa cultura è così dannosa, tanto da andare a colpire le sue stesse fondamenta, come ha fatto a prendere piede?

Principio di autorità, bias dell’ottimismo e influenza sociale

Nelle prossime righe, proveremo a rispondere a questa domanda, analizzando il fenomeno della hustle culture e prendendo in considerazione alcuni dei fattori che possono averne determinato la diffusione (ovviamente, senza alcuna pretesa di esaustività).  

Nel suo bestseller “Le armi della persuasione”, Robert Cialdini illustra sei principi fondamentali utilizzati comunemente nelle vendite, nella pubblicità e nella politica per orientare i processi decisionali. Tra questi, il principio di autorità – o “autorevolezza” – può rappresentare un’utile chiave di lettura per comprendere le dinamiche alla base della hustle culture.

Secondo Cialdini, infatti, “tendiamo a seguire e rispettare il parere dell’esperto o di chi riteniamo autorevole” (Cialdini, 1995). Non a caso, tra tutti i cultori della hustle culture, abbiamo citato proprio Elon Musk: uno degli uomini più ricchi del mondo, CEO visionario, famosissimo e costantemente al centro dell’attenzione pubblica. Una figura divisiva, ma innegabilmente di successo.

“Quindi se adesso Elon Musk lavora cento ore a settimana, tu fai lo stesso?”

Secondo Cialdini sì. 

A questo, dobbiamo aggiungere anche quel bias dell’ottimismo che spinge le persone a credere che le cose brutte (burnout, depressione, rovinosi fallimenti) accadano solo agli altri. Uno su mille ce la fa, e quell’uno sei sicuramente tu. 

Tuttavia, c’è un altro fattore che ha molto probabilmente contribuito alla diffusione della hustle culture a partire dai primi anni Duemila: siti web, blog e social media hanno amplificato, in molti casi, la voce di minoranze “rumorose” di over-workers. Minoranze famose e d’eccellenza che, proprio a causa del loro successo, hanno ricevuto ancora più spazio e credito, riducendo lentamente al silenzio chi avesse una visione diversa del lavoro, in una spirale che ormai conosciamo fin troppo bene (Noelle-Neumann 1974). Una volta innescato il meccanismo, l’influenza sociale e il principio del consenso hanno fatto il resto e la “corsa allo straordinario” è diventata un’abitudine: una prassi da seguire e rispettare in quanto comportamento espresso dal leader e condiviso dal gruppo (Turner, 1991; Cialdini, 1995).

Ma cosa succede se, all’improvviso, una pandemia costringe all’isolamento e mette in discussione norme condivise e consolidate?

La lunga pandemia: tra smart working e grandi dimissioni

Diamo al COVID quel che è del COVID: prima della pandemia il quiet quitting non esisteva. O meglio, l’espressione “quiet quitting” non esisteva – il suo primo utilizzo risale, infatti, a marzo 2022. 

Gli atteggiamenti che lo caratterizzano (ci arriveremo, tenete duro!), ovviamente, esistevano già, ma non se ne parlava: il quiet quitting era derubricato a fenomeno fisiologico a cui non dare troppa importanza.

Ben inteso: ricerche su job satisfaction, employee engagement, e work-life balance vengono portate avanti da ormai oltre mezzo secolo (Locke 1969, Walton 1973); in Italia abbiamo avuto esempi eccellenti ancora prima, con il modello aziendale promosso da Adriano Olivetti a partire dagli anni ‘50. 

Tuttavia, è solo durante la pandemia che, con l’adozione di massa di nuovi modi di lavorare e, successivamente, con lo spettro delle Grandi Dimissioni che si aggirava per l’Europa (e non solo), le attenzioni dell’accademia, della politica e dell’opinione pubblica hanno iniziato a focalizzarsi sul benessere del lavoratore, sulle sue aspettative e le sue esigenze piuttosto che sulla sua mera produttività.

Smart working

Lo smart working è stato il primo fenomeno a finire sotto la lente d’ingrandimento. Dal 2020 ad oggi sono stati pubblicati ben 4.476 paper, 849 conference proceedings e 477 libri sul tema del lavoro remoto, flessibile o da casa (fonte: Scopus). Prima del 2020? Soltanto 2.993 documenti. In totale.

Ne abbiamo parlato anche noi, illustrandone pro e contro ed evidenziando come si tratti di una tipologia di lavoro che può funzionare per certe persone ma non per altre, sulla base di differenze individuali e ambientali.

Grandi Dimissioni

Dopo la rivoluzione del lavoro da casa, nel pieno di una pandemia, mentre attendevamo con ansia il vaccino nella speranza collettiva che la luce in fondo al tunnel non fosse un TIR , nei primi mesi del 2021 lo spettro delle Grandi Dimissioni inizia a prendere forma.

Nel corso dell’anno, in Italia le dimissioni volontarie superano il milione, di cui oltre 500 mila solo nel quarto trimestre (dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), in aumento del 42% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il trend prosegue nei primi mesi del 2022 e non sembra fermarsi neanche dopo la fine dell’emergenza sanitaria.

Ma cosa spinge tutte queste persone a lasciare il proprio impiego, abbandonando la strada vecchia per la nuova nel bel mezzo di una crisi globale?

Secondo uno studio condotto dall’istituto statunitense Pew Research Center, le principali motivazioni risultano:

  • la bassa retribuzione (63%), 
  • l’assenza di opportunità di avanzamento (63%),
  • la sensazione di non essere rispettati sul lavoro (57%),
  • problemi legati alla cura dei figli (48%), 
  • mancanza di flessibilità nella scelta dell’orario di lavoro (45%),
  • mancanza di benefit come l’assicurazione sanitaria e le ferie pagate (43%). 

A prima vista, non sono certo dati sorprendenti: una persona sottopagata, che non vede possibilità di carriera e magari viene anche trattata a pesci in faccia ha tutte le ragioni di voler lasciare il proprio lavoro. 

Se, però, si sposta l’attenzione sulle altre motivazioni riportate, quali le richieste (insoddisfatte) di una maggiore flessibilità oraria e di più tempo libero da dedicare alla famiglia o alle vacanze, appaiono evidenti le prime crepe nel granitico muro della hustle culture.

La nuova normalità e l’avvento del quiet quitting 

È proprio in quelle crepe, in quegli spazi aperti e lasciati vuoti da coloro che avevano scelto di andarsene che ha iniziato a insinuarsi il fenomeno del quiet quitting. 

Nella definizione della Treccani, l’espressione quiet quitting sta ad indicare “la riduzione, in termini quantitativi, dell’impegno dedicato al proprio lavoro, consistente nel fare il minimo indispensabile pur nel rigoroso rispetto delle mansioni assegnate e dell’orario di lavoro.

È importante notare che non si tratta, quindi, di comportamenti controproduttivi (secondo la definizione data da Gruys e Sacket, 2003) ai danni dell’organizzazione, dei colleghi o del datore di lavoro.

Il quiet quitter non ruba né distrugge proprietà dell’azienda, non utilizza in modo inappropriato le informazioni o le risorse aziendali, non si assenta dal proprio lavoro senza giustificazione, non si comporta in modo tale da mettere in pericolo se stesso o altri, non aggredisce verbalmente o fisicamente colleghi, superiori o clienti, non fa abuso di alcool o droghe sul luogo di lavoro.

Semplicemente, si limita a fare ciò che è espressamente indicato nel proprio contratto e nulla di più.

Quiet quitting: un fenomeno generazionale?

Il quiet quitting è solitamente descritto come un fenomeno generazionale, che interessa in prevalenza Millennials (nati tra il 1981 e il 1996) e Generazione Z (nei tra il 1997 e il 2012).

Ovviamente, è impossibile avere una reale fotografia di quante e quali persone stiano effettivamente mettendo in pratica comportamenti associabili al quiet quitting. La visione del quiet quitting come approccio tipicamente giovanile deriva, infatti, soprattutto dalla mole di contenuti sul tema pubblicati e condivisi su TikTok (piattaforma tipicamente giovanile), ma dati reali sulla diffusione di tali comportamenti tra diverse fasce d’età non sono ancora disponibili. 

Tuttavia, un’indagine condotta da Gallup mostra come, effettivamente, i livelli di engagement e soddisfazione lavorativa siano diminuiti (rispetto al 2019) soprattutto tra le nuove generazioni, supportando l’ipotesi di una maggiore tendenza al quiet quitting tra i lavoratori più giovani. Se così fosse, una possibile spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che proprio le fasce di popolazione più giovani hanno subito maggiormente l’impatto della grande recessione post-pandemica, sia in termini materiali (perdita di lavoro, instabilità finanziaria) che psicologici (ansia, stress, depressione e altri problemi di salute mentale – dati Eurofound).

Di contro, la strenua difesa della hustle culture da parte delle generazioni precedenti potrebbe derivare da una visione distorta della situazione, piuttosto che da una sincera convinzione. 

Quiet quitting e sunk-cost fallacy

Qualche tempo fa abbiamo parlato dell’Effetto Concorde (anche chiamato “sunk cost fallacy”, ossia “fallacia dei costi irrecuperabili”): la distorsione cognitiva che porta una persona a continuare a investire risorse in un progetto fallimentare pur di non veder sfumare del tutto la possibilità di trarre un vantaggio da costi ormai già sostenuti. 

Per gli amici: “Abbiamo fatto trenta, facciamo anche trentuno”.

Ecco, provate a pensare a cosa può accadere nella mente di una persona che, per anni, ha sacrificato aspetti fondamentali della propria vita (personale, sociale, sentimentale, familiare) per rincorrere un riconoscimento professionale che, magari, non è mai arrivato (perché, banalmente, non possiamo diventare tutti CEO). 

La scelta più razionale sarebbe cambiare direzione, lasciando o dando meno priorità al  lavoro, ma questo significherebbe accettare la sconfitta e perdere definitivamente le energie e il tempo investiti inseguendo quel sogno, innescando una dissonanza cognitiva tra le scelte passate (e consolidate nel tempo) e un comportamento del tutto nuovo, in contraddizione con quanto fatto fino a quel momento. In sostanza, la decisione di allontanarsi da una condizione sub-ottimale, per quanto all’apparenza logica e ovvia, andrebbe a scontrarsi con il principio di coerenza che ci è tanto caro (a noi e al solito Cialdini, 1995) e contro quella avversione alla perdita che, secondo Kahneman e Tversky (1991), è pilastro onnipresente dei nostri processi decisionali.

Vista in quest’ottica, non stupisce che siano state proprio le nuove generazioni a prendere posizione, avendo “meno da perdere” nella lotta alla hustle culture

D’altronde, che il re fosse nudo è sempre stato un bambino a dirlo. 

Quiet quitting: nuovo trend o ascesa degli “operatori”?

Come abbiamo detto, il fenomeno del quiet quitting non è certo nuovo. 

Lavoratori che si limitano a fare lo stretto indispensabile, mettendo il lavoro al secondo, al terzo o al quarto posto nella classifica delle proprie priorità sono sempre esistiti. Capaci, competenti, affidabili, ma all’apparenza poco motivati, e sicuramente poco competitivi. Lavoratori che non sgomitano per mettersi in mostra e non partecipano alla “corsa allo straordinario”. Che non rispondono alle email nel weekend e non si portano il pc in vacanza.

Lavoratori che, nella definizione fornita da Bain Futures in un recente report sul futuro del lavoro, prendono il nome di “operatori”. Nell’analizzare le differenze individuali in termini di atteggiamento verso il lavoro ed esigenze lavorative, infatti, il think tank ha individuato sei diversi archetipi di lavoratore, ciascuno caratterizzato da specifici bisogni e motivazioni al lavoro.

Abbiamo, quindi, i givers, dalla natura altruista ed empatica, che trovano significato in professioni che migliorano direttamente la vita degli altri; gli artisans, motivati dalla “ricerca della maestria”, tendenzialmente solitari; gli explorers che, viceversa, tendono ad adottare un approccio pragmatico allo sviluppo professionale, ottenendo solo il livello di competenza necessario ed esplorando più percorsi occupazionali nel corso della vita; i pioneers, orientati al futuro e tolleranti al rischio; gli strivers, lavoratori ambiziosi motivati dal successo professionale, lo status e la retribuzione; e, infine, gli operators.

“Gli operatori trovano significato e autostima soprattutto al di fuori del proprio lavoro. Vivono il lavoro come un mezzo per raggiungere un fine. Non sono particolarmente motivati dallo status o dall’autonomia, e in genere non cercano di distinguersi sul posto di lavoro. Tendono a preferire la stabilità e la prevedibilità. Pertanto, rispetto ad altri archetipi, hanno meno interesse a investire per cambiare il proprio futuro.”

Vi ricorda qualcosa questa definizione?

Quiet quitting e bisogno di sicurezza

Il quiet quitting, soprattutto nella sua forma più “social”, è descritto come un meccanismo di difesa per proteggersi dalla hustle culture e dalle sue conseguenze sulla salute mentale (es: stress lavoro-correlato, burnout). Le sue radici sembrano affondare, quindi, non tanto (o non solo) nella insoddisfazione lavorativa, quanto nella vera e propria paura di ammalarsi.

Come molti dei nostri lettori sapranno, secondo la famosa Scala gerarchica dei bisogni di Abraham Maslow (forse superata, ma per oggi ce la facciamo andare bene), le necessità umane sono organizzate secondo una piramide: sulla base si collocano i bisogni fondamentali per la sopravvivenza e, via via, si sale verso quelli più alti, legati alla massima realizzazione del Sé. Una volta soddisfatte le necessità di base, quindi, si sviluppano bisogni sempre più complessi e sofisticati, e questi bisogni orientano il comportamento umano.

Esistono forze di sviluppo, che permettono all’individuo di “salire di livello” e forze regressive, che rappresentano un deterioramento della situazione e portano gli individui a preoccuparsi di necessità di livello più basso.

Piramide dei Bisogni di Maslow (1954)

Volendo mettere a confronto i bisogni rappresentati dalla hustle culture e dal quiet quitting, appare evidente che ci troviamo a due livelli completamente diversi. Nel primo caso, l’individuo è motivato dal desiderio di essere stimato e apprezzato; si trova, quindi, nella parte più alta della piramide. Nel secondo, l’individuo è motivato dal bisogno di sicurezza e interessato alla salvaguardia del proprio benessere; qualcuno che si trova alla base della piramide. 

Una spiegazione all’ascesa degli operators potrebbe risiedere, quindi, nel fatto che i drammatici avvenimenti degli ultimi due anni e mezzo abbiano fatto scivolare molti lavoratori verso la base della piramide, spingendoli a de-prioritizzare gli aspetti della vita lavorativa più legati a bisogni “alti” quali l’appartenenza sociale, la stima e l’autorealizzazione e concentrarsi, invece, sulla ricerca di sicurezza e stabilità.

Dalla hustle culture al side hustle?

Volendo spezzare una lancia a favore della hustle culture si potrebbe dire che, in realtà, questa non sia stata del tutto sconfitta, ma si sia trasformata in qualcosa di nuovo e (forse) meno tossico.

Proprio dal rifiuto della hustle culture in senso stretto, infatti, nasce la cultura del side hustle: non limitarsi ad avere una sola occupazione, ma ricercare nuove fonti di reddito, “a lato”, appunto, del proprio impiego principale. In molti casi, il side hustle nasce dal desiderio – e dalla possibilità, spesso grazie a internet – di far fruttare una passione personale o una competenza specifica, rimasta inespressa o inutilizzata nel proprio “day job” (il lavoro svolto quotidianamente e da cui proviene la propria principale fonte di reddito). 

Secondo il sito sidehustlenation.com (che, ammettiamo, potrebbe essere un po’ di parte, ma riporta anche fonti terze), il 45% della popolazione statunitense e il 19% della popolazione britannica hanno almeno un side hustle nel 2022, percentuali che si alzano anche di molto tra le generazioni più giovani – sì, proprio quelle che non hanno voglia di lavorare! -, raggiungendo il 50% tra i Millennials americani e il 42% tra i Millennials inglesi.

Siamo di fronte, quindi, a una lotta fratricida, con una fazione di giovani che porta avanti la battaglia del quiet quitting e l’altra metà che, invece, non si accontenta di un solo lavoro e ne cerca addirittura un secondo?

Può darsi, ma probabilmente no. Più probabilmente, quiet quitting e side hustles sono due facce della stessa medaglia, che nascono dal desiderio di fare spazio a sé e a ciò che si reputa più importante, valorizzando le proprie skills e le proprie passioni. 

Mettendo da parte l’orgoglio e i pregiudizi (anche se a noi piace chiamarli bias) tipici della hustle culture.

Riferimenti bibliografici

[1] Cialdini, R. (1995). Le armi della persuasione. Come e perché si finisce col dire sì. Giunti Editore

[2] Christina C. e Shasita, R. (2022). Multimodal Discourse Analysis on Motivational Hustle Culture Quotes. Metaphor. Vol. 4, No. 2.

[3] Gruys, M. L., Sackett, P. R. (2003). Investigating the Dimensionality of Counterproductive Work Behavior. International Journal of Selection and Assessment. Volume 11, Issue 1, pp. 30-42. DOI: https://doi.org/10.1111/1468-2389.00224

[4] Harter, J. (2022). Is Quiet Quitting Real?. Gallup. URL: https://www.gallup.com/workplace/398306/quiet-quitting-real.aspx

[5] Kahneman D., Tversky, A. (1991). Loss Aversion in Riskless Choice: A Reference-Dependent Model. The Quarterly Journal of Economics, Volume 106, Issue 4, pp. 1039–1061. DOI: https://doi.org/10.2307/2937956

[6] Locke, E. A. (1969). What is job satisfaction?. Organizational behavior and human performance, 4(4), 309-336.

[7] Maslow, A. H. (1954). The instinctoid nature of basic needs. Journal of personality.

[8] Morgan, J. (2016). Is The Hustle Culture And Mentality Out Of Control? Forbes. URL: https://www.forbes.com/sites/jacobmorgan/2016/02/26/is-the-hustle-culture-and-mentality-out-of-control

[9] Noelle-Neumann, E. (1974). The spiral of silence. A theory of public opinion. Journal of communication, 24(2), 43-51.

[10] Parker, K., Horowitz, J. M. (2022). Majority of workers who quit a job in 2021 cite low pay, no opportunities for advancement, feeling disrespected. Pew Research Center. URL: https://www.pewresearch.org/fact-tank/2022/03/09/majority-of-workers-who-quit-a-job-in-2021-cite-low-pay-no-opportunities-for-advancement-feeling-disrespected/

[11] Robinson, B.E. (2019). The ‘Rise and Grind’ of Hustle Culture. Psychology Today. URL: https://www.psychologytoday.com/us/blog/the-right-mindset/201910/the-rise-and-grind-hustle-culture

[12] Schwedel, A., Root, J., Allen, J., Hazan, J., Almquist, E., Devlin, T., Harris, K. (2022). The Working Future: More Human, Not Less. Bain & Company. URL: https://www.bain.com/contentassets/d620202718c146359acb05c02d9060db/bain-report_the-working-future.pd

[13] Sussman, S. (2012). Workaholism: A Review. Journal of Addiction Research & Therapy, 6, 4120-4138. DOI: https://doi.org/10.4172/2155-6105.S6-001

[14] Turner, J. C. (1991). Social influence. Thomson Brooks/Cole Publishing Co.

[15] Walton, R. E. (1973). Quality of working life: what is it. Sloan management review, 15(1), 11-21.

L’autrice

Francesca Bellante è una dottoranda in Business and Behavioral Sciences presso l’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Chieti-Pescara, con un background in Scienze della Comunicazione e Informatica Umanistica. I suoi interessi di ricerca includono il benessere organizzativo e, in particolare, la promozione della creatività nel contesto aziendale.

1 commento

  • Mi viene da pensare che questi fenomeni possano derivare dal fatto che la maggiorparte delle persone lavora in organizzazioni sempre più grandi, dove si corre il rischio di non riconoscersi nei valori e obiettivi dell’azienda, cercando quindi “side activities” dove sentirsi appagati.

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