Le Neuroscienze dello Storytelling: il caso degli interventi di prevenzioneTempo di lettura stimato: 17 min

di Giulia Carlotta Guerra

“Non è lui … ma è lei a divorarlo. Afferma: Il Fumatore Accanito!”  è la frase riportata nella prima campagna pubblicitaria antifumo creata nel Terzo Reich, su un cartello rappresentante una sigaretta che “divora” un uomo. Nel 1939, l’anno dell’inizio del secondo conflitto mondiale, il tedesco Franz Müller, presentò il primo studio epidemiologico che postulava l’esistenza di un rapporto tra l’uso del tabacco e la comparsa dei tumori. E nel 1943 il lavoro di Eberhard Schairer ed Erich Schöniger, ricercatori dell’Università di Jena, confermò questa tesi: “il tumore ai polmoni era un effetto diretto dell’apparentemente innocua sigaretta”. Ricerche tedesche coeve, dimostrarono efficacemente l’esistenza del fumo passivo e i suoi rischi, ma, nonostante ciò, le campagne antifumo non ebbero gli effetti desiderati (Tracy Brown Hamilton, 2014).

L’immagine della campagna antifumo del Terzo Reich

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, tra il 1946 e il 1952, infatti, la società americana RJR pubblicizzò le sue sigarette in un modo “originale”. Venne condotto uno studio nel quale vennero interrogati circa 113.597 medici chiedendo loro quale tipo di sigarette fumassero. Dalle interviste, emerse che la maggior parte di loro fumava le “Camel”, ovvero il marchio di sigarette prodotto dalla RJR; ciò diede vita ad una delle più grandi campagne pubblicitarie, con lo slogan: “Più medici fumano Camel”. Andando contro i primi dibattiti sui possibili danni provocati dal fumo, il messaggio che veniva da loro proposto era: “se fumano anche i medici allora possiamo stare tranquilli!”.

E le Camel non furono le uniche sigarette ad essere pubblicizzate con messaggi simili: ad esempio, la Philip Morris affermava, attraverso le sue pubblicità, che la tosse di 3 fumatori su 4 migliorava passando a Philip Morris (Giovanni Battista Coiante, 2019). Spot pubblicitari che richiamano il Principio dell’Autorità o dell’Autorevolezza di Cialdini, secondo cui “tendiamo a seguire e rispettare il parere dell’esperto o di chi riteniamo autorevole” (Robert Cialdini – Le Armi Della Persuasione, 1995), ovvero siamo soliti seguire alla lettera i comportamenti di chi consideriamo “superiori” a noi solo per il ruolo che queste persone ricoprono, come, in questo caso i medici, attribuendo in questo modo una giustificazione al nostro vizio.

Dalle pubblicità degli anni ’50, che incitavano al fumo con scene di medici felici di fumare e bambini che a Natale giravano con le stecche di sigarette tra le mani, si è passati ai pacchetti di oggi che, in accordo alla normativa europea, contengono immagini raccapriccianti legate ai danni causati dal fumo. L’obiettivo era quello di incitare la paura nelle persone, ma la percezione del rischio e della paura possono non bastare.

Quale tipo di pubblicità bisognerebbe usare nell’ambito della prevenzione?

Dagli anni ’30 agli anni ’50, le pubblicità utilizzate per le campagne di prevenzione antifumo erano per lo più formate da cartelloni pubblicitari o da foto poste sui pacchetti di sigarette, ricche di immagini forti e scritte in grassetto e a caratteri cubitali come: “Il fumo uccide, smetti subito”. Un tipo di pubblicità definita “non narrativa” che in ambito di prevenzione è stato dimostrato non essere in grado di suscitare un forte impatto sulla modifica del comportamento delle persone.

Le immagini shock sui pacchetti di sigarette;
Fonte:
Fanpage, 2015

Una delle spiegazioni date all’inefficacia della pubblicità non narrativa è stata fornita da Martin Lindstrom, all’interno del suo bestseller “Neuromarketing”, nel quale ha descritto uno studio effettuato mediante l’utilizzo di un test di risonanza magnetica funzionale avente come scopo quello di determinare quali aree del cervello si attivassero durante la somministrazione di alcuni stimoli, come la visione di pacchetti di sigarette deturpati da immagini horror. Il test ha mostrato che durante l’osservazione delle immagini si attivava l’area del nucleus accumbens, quella relativa al desiderio, ovvero, in questo caso, la voglia di fumare.

Un’altra interpretazione della mancata efficacia della campagna pubblicitaria non narrativa è legata alla reazione emotiva che il fumatore ha nei confronti dei pacchetti delle sigarette. Il fumatore sa già che il fumo fa male, e le immagini, si discostano dall’essere informative; pertanto, producono principalmente un senso di fastidio. La strategia minimale sarà quindi quella di ridurre il più possibile il fastidio, o attraverso la scelta del pacchetto (l’occhio piuttosto che il polmone bucato) o azzerando l’effetto delle immagini nascondendo il pacchetto in una custodia (Lindstrom, 2009).

Dalla letteratura possiamo individuare due tipi di pubblicità e attribuire loro una definizione: la pubblicità non narrativa, ricca di immagini, scritte, video sonori ma priva di voce narrante; e la pubblicità narrativa o storytelling, delineata come una pubblicità che espone una storia attraverso trame e personaggi pubblicitari (Chang, 2009; Kim, 2015; Lien & Chen, 2013). Inoltre, la pubblicità narrativa si suddivide in narrativa in prima persona, dove viene esposta una testimonianza, e in terza persona, dove il racconto viene effettuato da una voce narrante.

Tra le due, quella che risulta suscitare un maggior effetto sul comportamento dell’individuo e che, dunque, risulta efficace nell’ambito della prevenzione, è la pubblicità di tipo narrativo.  Le storie e i racconti, dopo tutto, sono da sempre utilizzate per trasmettere conoscenze, e permettono di mostrare esempi buoni ed esempi cattivi a cui ispirarsi o da cui trarre insegnamento (Melanie C. Green, 2008).

Perché è importante la comunicazione narrativa negli interventi di prevenzione?

L’importanza della componente narrativa presente nella campagna pubblicitaria viene evidenziata dalla Teoria dei Trasporti o Teoria del Trasporto Narrativo di Green & Brock (Green & Brock, 2000) la quale descrive la tendenza dei consumatori narrativi a “viaggiare” o essere attratti mentalmente dalla realtà descritta in una narrazione. Secondo la teoria, il trasporto non si limita solo alla lettura del materiale scritto, ma il termine “lettore” può essere interpretato in modo da includere anche gli ascoltatori, spettatori o qualsiasi destinatario di informazioni narrative.

Se gli individui vengono trasportati all’interno di una storia o racconto narrativo, possono riportare quanto vissuto in essa alle loro credenze nel mondo reale. Molti filoni di ricerca hanno messo in atto, nei loro studi, la teoria di Green e Brock cercando di comprendere quale tipo di narrazione risulti avere un maggior impatto sul cambiamento comportamentale dei soggetti studiati (Green & Brock, 2000).

In alcuni studi è stata effettuata un’associazione tra la comunicazione narrativa in terza persona e la comunicazione non narrativa o narrativa in prima persona, mettendo in evidenza che la più efficace fosse la comunicazione di tipo narrativo perché il messaggio compariva più fluido. Per esempio, lo studio di metanalisi condotto da Shen, Sheer e Li, nel 2015, ha mostrato che i messaggi narrativi a sostegno di un intervento non funzionano allo stesso modo su tutti i problemi di salute, bensì le narrazioni hanno effetti significativi sulla prevenzione delle malattie ma non sulla cessazione dei comportamenti di dipendenza.

Questo perché, sbarazzarsi di un comportamento dannoso o rischioso potrebbe essere intrinsecamente impegnativo per gli individui che sono dipendenti, a prescindere dal tipo di persuasione utilizzata (Shen, Sheer e Li, 2015). Invece, nello studio di Kang Li del 2020 sono state fatte due pubblicità, una di tipo narrativo e una di tipo non narrativo, aventi come scopo la riduzione del consumo di zucchero negli USA. All’interno dei due tipi differenti di pubblicità, i partecipanti ricevevano degli stimoli differenti: nella condizione narrativa, venivano esposti ad una pubblicità che presentava un’esperienza personale in prima persona, mentre nella condizione non narrativa, la pubblicità presentava delle argomentazioni più accademico-scientifiche, con valori statistici. Dai dati riscontrati è emerso che le pubblicità narrative hanno ottenuto un effetto maggiore rispetto a quelle non narrative sulla limitazione dell’uso di zucchero (Li, 2020).

Cosa rende lo storytelling più efficace di una comunicazione non narrativa?

Grazie alle tecniche di neuroimaging, è stato mostrato che la pubblicità con un messaggio fluido (dove per messaggio fluido si intende un concetto chiaro, di facile comprensione) riesce a far immedesimare le persone all’interno del messaggio stesso risultando, quindi, efficace nella persuasione. Per esempio, quando una narrazione corrisponde alle caratteristiche di una persona fumatrice, ovvero viene descritto ciò che quella persona prova quando fuma, quella persona è in grado di rispecchiarsi in ciò che sente, cosa che porta l’individuo a “sentirsi bene” e quindi ad avere un forte impatto emotivo, il quale causerà un’elaborazione fluida del messaggio pubblicitario.

Tuttavia, in letteratura non viene spiegato se l’efficacia narrativa si adatti o meno al comportamento della persona influenzando, così, la fluidità dell’elaborazione meglio della comunicazione non narrativa. Pertanto, lo studio condotto da Li nel 2020 non ha esaminato solo gli effetti della moderazione del focus normativo, ma ha anche studiato la mediazione degli effetti della fluidità di elaborazione sull’efficacia della pubblicità narrativa vs. la pubblicità non narrativa. Inoltre, è stato notato che la fluidità del discorso ha effetti sull’attenzione normativa e sull’efficacia della pubblicità (Li, 2020).

Tale nitidezza del discorso migliora il coinvolgimento della persona nella storia e si traduce in una maggiore persuasività della narrazione. Infatti, utilizzando l’EEG per individuare l’impatto emotivo di soggetti sottoposti a vari tipi di pubblicità, come spot televisivi e giornali pubblicitari, si può notare come le pubblicità che scaturiscono un maggior impatto emotivo venivano preferite dai soggetti e risultano creare un alto effetto persuasivo. In letteratura, gli studi condotti hanno esaminato, tramite l’utilizzo di EEG, la possibilità di rilevare due stati di preferenza, piacevole e spiacevole, durante la presentazione prima di spot televisivi pubblicitari e successivamente di giornali pubblicitari (Aldayel et al., 2020).


Nell’immagine gli elettrodi della EEG evidenziano una correlazione positiva (p>0.05) tra l’analisi emotiva e il livello di persuasione (Aldayel et al., 2020).

In un altro studio è emerso che le pubblicità risultanti altamente rilevanti per gli individui sono quelle che si concentrano sulle aree cerebrali della memoria, dell’attenzione e sui processi emotivi. In tale studio, si è scoperto che a volte le persone non sono in grado di descrivere i loro veri sentimenti ed emozioni verso un particolare marchio o annuncio pubblicitario; ma gli stimoli legati a un marchio o ad una pubblicità attivano l’ippocampo, la corteccia prefrontale dorsolaterale e il mesencefalo, portando così il cliente ad acquistare il marchio (Hafez, 2019). Invece, tramite EEG e fMRI, si è notato come pubblicità che attirano l’attenzione sono in grado di attivare varie aree del cervello come la corteccia prefrontale e i processi emotivi che rendono la pubblicità più efficace e più impressa nella mente del consumatore (Alsakaa et al., 2020).



Theoretical framework for improving value added marketing performance (Hafez, 2019)

Nello studio di Kim e Cappella, condotto nel 2012, sono state realizzate due tipi di campagne pubblicitarie antifumo, una di tipo narrativa e l’altra di tipo non-narrativa. Lo studio ha utilizzato un protocollo di esposizione ripetuta in cui ogni partecipante leggeva due diversi articoli di notizie principali, riguardanti i danni causati dal fumo di tabacco, o racconti di testimonianze, e veniva assegnato a una delle quattro condizioni di efficacia: smettere di fumare senza aiuto, smettere di fumare attraverso una consulenza, usare un piano d’aiuto non personalizzato, o usare un piano d’aiuto geneticamente adattato. Tale studio ha dimostrato che la pubblicità in cui venivano letti racconti di testimonianze causava una maggiore intenzione di voler smettere di fumare nel soggetto rispetto alle pubblicità che erano dotate solo di video e immagini (Kim et al., 2012). Pertanto, sulla base dei risultati ottenuti dai vari studi in letteratura, si riscontra che la pubblicità narrativa sia più persuasiva della pubblicità non narrativa.

Quindi, ciò che sembrerebbe rendere efficace una pubblicità all’interno di un contesto di prevenzione, è la presenza di una narrazione e di un tipo di messaggio fluido. Ascoltare la testimonianza di qualcuno che ha vissuto o sta vivendo un’esperienza “dannosa”, come lo può essere il fumo, la droga o l’alcol, permette di ascoltare con maggior attenzione il suo racconto e permette di suscitare nell’ascoltatore un forte impatto emotivo facendo sì che il messaggio della testimonianza rimanga vivo nella mente dell’ascoltatore. Invece, il semplice osservare scene, foto e ascoltare colonne sonore, può attirare l’attenzione ma solo in maniera “momentanea”. Inoltre, la capacità di rendere il messaggio della narrazione fluido permette all’ascoltatore di immedesimarsi nel racconto suscitando in egli stesso un impatto emotivo, caratteristica che gli permetterà di ricordare meglio il discorso.

Nel 2019, grazie ai ricercatori inglesi dell’University College di Londra e dell’Università di Loughborough, lo storytelling  è stato consacrato come uno strumento di ricerca in grado di dare risultati efficaci nelle comunicazioni legate alle più svariate situazioni: dalle vaccinazioni, ai cambiamenti climatici, alla resistenza antimicrobica, allo screening oncologico, per reperire informazioni o come intervento per attuare un cambiamento alle conoscenze, agli atteggiamenti e ai comportamenti in tema di salute pubblica (McCall B, Shallcross L, Wilson M, 2019).

Pertanto, che si tratti di smettere di fumare, di scegliere di vaccinarsi, di controllare i fattori di rischio per l’obesità, di monitorare i cambiamenti climatici legati alla salute o di fare prevenzione, molte delle questioni chiave della salute pubblica oggi richiedono la condivisione di informazioni in grado di scatenare in modo significativo un cambiamento positivo nella conoscenza, negli atteggiamenti e nei comportamenti. Le storie e le narrazioni aiutano a dare un senso a esperienze e pensieri, alle interazioni con l’ambiente e gli altri, a formulare le credenze, identità e valori di ognuno di noi. Lo storytelling trasmette un’esperienza facendola sembrare reale, incorporando una dimensione personale che coinvolge il lettore o l’ascoltatore e che conferma le esperienze da lui vissute.

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L’Autore

Laureata in Psicologia Clinica e della Salute all’Università degli studi G. D’Annunzio di Chieti- Pescara. Dottoranda in Business and Behavioural Sciences presso il Dipartimento di Neuroscience, Imaging and Clinical Sciences dell’Università degli studi G. D’Annunzio.  Si occupa dello sviluppo linguistico e comunicativo del bambino e gestisce gli interventi di screening nelle scuole primarie e secondarie con lo scopo di individuare gli indicatori di possibili difficoltà del bambino che possono portare alla comparsa di Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

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