La Psicologia dei RitualiTempo di lettura stimato: 25 min

di Serena Iacobucci

Spesso giudicati come semplici superstizioni o pratiche irrazionali frutto di pura scaramanzia, in realtà i rituali svolgono tantissime funzioni a livello individuale e collettivo: dalla regolazione delle nostre emozioni al raggiungimento dei nostri obiettivi di performance fino – ovviamente – alla costruzione, al mantenimento e all’evoluzione delle nostre reti sociali.
Nel volume “Rituals: How Seemingly Senseless Acts Make Life Worth Living” (“Rituali: Come gesti apparentemente insensati rendono la vita degna di essere vissuta” – traduzione nostra, non ne esiste ancora un’edizione italiana), l’antropologo e scienziato cognitivo Dimitris Xygalatas ripercorre i risultati delle sue ricerche sulla scienza dei riti, adottando una nuova prospettiva di ricerca. Portando i rituali in laboratorio – e a volte anche il laboratorio all’interno dei rituali stessi –  Xygalatas mostra come sia possibile studiare più a fondo non solo il valore che queste pratiche hanno all’interno della nostra società, ma anche il loro ruolo all’interno del nostro processo evolutivo, nonché il loro effetto su variabili psicologico-comportamentali, come l’autoregolazione, la gestione dello stress, lo sviluppo della propria identità individuale e sociale.

In questo articolo parleremo di:

  1. Evoluzione delle metodologie di ricerca per lo studio dei rituali
  2. La definizione: Le tre “R” di rituale
  3. Il ruolo dei rituali nell’evoluzione umana
  4. I rituali come strumenti per ridurre stress e ansia
  5. I rituali come esperienze collettive: la sincronizzazione del battito cardiaco
  6. Conclusione: Il valore dei rituali

L’evoluzione delle metodologie di ricerca per lo studio dei rituali

Lo studio dei rituali è sempre stato tradizionalmente affrontato da una prospettiva socio-culturale ed antropologica molto ampia, ponendo poca attenzione sia sui processi che sugli effetti psicologici (Hobson et al., 2017). Nel corso dell’ultimo secolo, lo studio del rituale ha beneficiato soprattutto di metodologie di ricerca tipiche dell’antropologia culturale, come le ricerche etnografiche. Questo ha fatto sì che l’osservazione del fenomeno avvenisse a livello macro, fornendoci tante interessantissime risposte riguardo alle sue funzioni socio-culturali che operano a livello di società o gruppi. Questo approccio, però, ha posto in secondo piano uno studio a livello micro, che ci permette invece di indagare le basi e le risposte psicologiche, neurali e fisiologiche del rituale a livello di individuo. 

Grazie all’integrazione di metodologie di ricerca sperimentale prese in prestito dalla psicologia sociale, dalle scienze cognitive, dall’economia comportamentale e dalle neuroscienze, lo studio dei rituali ha iniziato ad interessarsi anche delle variabili finora difficilmente osservabili o operazionalizzabili.

Va chiarito che questa lacuna era ovviamente legata a difficoltà metodologiche oggettive non ancora completamente superate e che rappresentano tutt’oggi una sfida per i ricercatori e le ricercatrici nel campo.

Dimitris Xygalatas – docente di antropologia e scienze psicologiche alla University of Connecticut – nel suo saggio divulgativo Rituals riassume tutte le sue ricerche condotte finora adottando approcci misti – evidenziandone non solo i risultati ma anche le sfide metodologiche.
Nel 1953, racconta Xygalatas, 3 milioni di persone hanno partecipato all’incoronazione della Regina Elisabetta Seconda, nel 1995 ben 5 milioni di fedeli hanno assistito alla messa di Giovanni Paolo Secondo durante la giornata mondiale della gioventù, nel 2019 ben 150 milioni di devoti sono accorsi ad Allahabad, in India, per partecipare a quella che è stata definita come il più grande ritrovo di esseri umani nella storia. Tutti questi eventi hanno due cose in comune: sono esperienze collettive significative con un profondo impatto sulla nostra spiritualità e sulla nostra percezione di appartenenza, e per questo motivo sono estremamente interessanti da un punto di vista socio-psicologico. Allo stesso tempo, sono impossibili da replicare all’interno di un laboratorio per poter isolare opportunamente le variabili d’interesse. Quando sottolineiamo questo limite, non parliamo solo di dimensioni dei campioni osservati. Un altro dettaglio che rende i rituali particolarmente complessi da studiare in laboratorio è proprio la loro fortissima dipendenza dal contesto: si svolgono in determinati periodi dell’anno, in luoghi specifici del mondo – come il Muro del Pianto di Gerusalemme, Piazza San Pietro o le acque del Gange. Inoltre richiedono la presenza di determinate figure simboliche, siano esse persone dedicate ad officiare le attività o gli oggetti allegorici. Inoltre, i riti prevedono arousal emotivi specifici, a volte estreme attività dolorose al limite della mutilazione, attività pericolosissime come l’attraversamento di mura di fuoco, pellegrinaggi lunghi e sfiancanti. Insomma, non c’è bisogno di proseguire oltre per ribadire che le attività rituali sono difficilmente replicabili dentro i nostri laboratori di ricerca.

Tuttavia, è possibile spacchettare i rituali nelle loro componenti principali e replicarle all’interno di esperimenti ben costruiti, con molta fantasia e capacità di pensare al di fuori degli schemi mentali dentro i quali l’attività sperimentale, e il suo (giustificato) rigore metodologico, spesso tende a limitarci.

Per poter partire con un bagaglio comune nel ricchissimo viaggio proposto dall’autore, dobbiamo cominciare – come sempre – dallo stabilire cos’è un rituale e cosa non lo è. Il primo chiarimento che ci viene proposto è la differenza tra rito e abitudine.

In entrambi i casi si tratta di comportamenti stereotipati e ripetitivi, ma nel caso dell’abitudine c’è una caratteristica fondamentale: la ripetizione di queste azioni ha un effetto diretto sul mondo – mentre il rituale ha un puro valore simbolico.

Ad esempio, sviluppiamo l’abitudine di lavare i denti prima di andare a dormire e la funzione di questo comportamento ripetuto è causalmente trasparente: svolge una funzione immediatamente comprensibile e renderlo un gesto abitudinario ha lo scopo di far sì che continuiamo a svolgerlo in maniera regolare e quasi automatica.

Al contrario, un rito è causalmente opaco: la sequenza di azioni che viene ripetuta in maniera rigida e precisa ha un puro valore simbolico e non produce dei risultati pratici (Homans, 1941). Come spiega bene Il Post in questo articolo dedicato ai rituali, non esiste un nesso causale tra la pioggia e la danza eseguita per invocarla o tra una specifica cerimonia funebre e il superamento del lutto.

La definizione: Le tre “R” di rituale

Ovviamente, in questo articolo, non faremo alcun riferimento a fissazioni o comportamenti stereotipati sviluppati di persone neuroatipiche o con disturbi come quello ossessivo compulsivo. Partire da questi comportamenti estremi, però,  può aiutarci a capire la natura del rituale: ad esempio, i pensieri intrusivi di una persona con disturbo ossessivo compulsivo vengono mitigati solo con l’esecuzione di comportamenti che non hanno alcun nesso causale con l’obiettivo che si vuole raggiungere, vengono eseguiti più volte e in maniera aderente a un protocollo autoimposto.

Proprio come i rituali, questi comportamenti causalmente opachi – oltre a non avere un chiaro effetto sulla realtà – hanno quindi tre caratteristiche: sono rigidi, ripetitivi e ridondanti.

Degli studi antropologici (es. Dulaney e Fiske, 1994) hanno notato che in molte culture le azioni e i comportamenti sviluppati da persone con disturbi ossessivo compulsivi tendono ad esasperare alcune azioni tipiche dei rituali della comunità prevalente nella zona in cui abitano. Queste somiglianze hanno portato altri studiosi ad avanzare un’ipotesi: ll rituale sarebbe il risultato di un errore evolutivo, una anomalia comportamentale senza alcun valore adattivo. Tuttavia, questa ipotesi – seppur affascinante – ha ricevuto molte critiche negli anni, prima fra tutti i comportamenti evolutivi maladattivi che infatti  tendono a non rimanere in giro a lungo, mentre invece i rituali ci accompagnano da millenni di storia e continuano a svolgere tantissime funzioni psico-sociali. Fiske stesso ribalta, quindi, l’idea che i rituali siano il risultato di un glitch evolutivo e propone, piuttosto, l’ipotesi che i comportamenti ossessivo-compulsivi siano una manifestazione patologica che nasce dalla propensione umana, quasi innata, a lasciarsi coinvolgere emotivamente dai rituali.  

Il ruolo dei rituali nell’evoluzione

Proviamo a paragonare l’inizio dell’umanità con l’inizio della nostra vita: i bambini tendono a sviluppare moltissimi comportamenti rituali in maniera ossessiva e ripetitiva, come guardare lo stesso identico cartone centinaia di volte. Uno studio condotto su bambini in età pre-scolare in Israele e Stati Uniti ha dimostrato che i rituali hanno una valore inferenziale fortissimo per i bambini: ad esempio, non pensano che si celebri il compleanno per festeggiare un anno in più ma – al contrario – che sia proprio il festeggiamento a causare l’invecchiamento (Klavir e Leiser, 2002; Woolley e Rhoads, 2019). Gli studiosi raccontano ai bambini la storia di una bambina di un anno a cui è stata organizzata una festa di compleanno per i suoi due anni. Dopo la prima parte della storia, i bambini sono in grado di riportare correttamente l’informazione: la bambina aveva un anno e ne ha compiuti due. Viene poi detto loro che l’anno seguente i genitori della bambina non sono riusciti ad organizzare la festa per festeggiare il suo terzo compleanno e – a questo punto – alla domanda “Quanti anni ha la bambina?”,  i bambini affermano che la bambina ha ancora due anni. In generale, i bambini credono che il rito del compleanno abbia il potere di modificare attivamente l’età: di aumentarla se ripetuto più volte di seguito e di bloccarla se non viene celebrato.
All’inizio della nostra vita – come potrebbe essere accaduto sin dall’inizio della civiltà – tendiamo quindi a credere che i rituali possano avere un’influenza causale sul mondo che ci circonda:  riprendiamo i comportamenti rituali tipici del gruppo a cui apparteniamo e li applichiamo per poter diventare dei membri a tutti gli effetti della nostra società, aderendo alle convenzioni del gruppo a cui apparteniamo. Questo avviene anche quando i comportamenti non sono rilevanti ai fini dello svolgimento di un compito. In un altro interessantissimo studio Horner & Whiten (2004) hanno chiesto a bambini e scimpanzé di risolvere un rompicapo che consentiva di aprire una scatola contenente una piccola ricompensa. In un primo momento, i ricercatori mostrano come risolvere il rompicapo, aggiungendo però dei movimenti rituali completamente irrilevanti. In uno degli scenari, però, la scatola era trasparente, rendendo palese che alcuni di questi movimenti non fossero assolutamente correlati con la risoluzione del puzzle. Nell’altro scenario, la scatola era opaca, per cui non era possibile dire se i meccanismi interni fossero o meno direttamente manipolati dai movimenti eseguiti. Mentre gli scimpanzé nella condizione che prevedeva l’uso della scatola trasparente tendevano ad evitare gli step irrilevanti per raggiungere direttamente l’obiettivo, i bambini nella stessa condizione sperimentale continuavano ad eseguire tutti gli step presentati durante le istruzioni, anche quelli palesemente inutili ma fortemente ritualizzati.  Gli autori ipotizzano  che la differenza di prestazioni tra scimpanzé e bambini possa essere dovuta proprio da una maggiore suscettibilità dei bambini alle convenzioni culturali, che stanno apprendendo per imitazione affinché possano essere accettati all’interno della comunità di simili che li accoglie. Da qui la loro tendenza a osservare ed emulare le azioni casuali del dimostratore, interpretandole come significative o intenzionali.

Un’obiezione che potrebbe sorgere a questo punto è che i rituali possano essere però correlati allo sviluppo cognitivo – e che con l’età e una maggior comprensione dei nessi causali  dovremmo diminuire i nostri comportamenti imitativi, ma non è così. Con un esperimento simile McGuigan e colleghi (2011) hanno dimostrato proprio il contrario: gli adulti diventano ancora più imitativi con l’età, copiando selettivamente particolari comportamenti che hanno la caratteristiche di essere o sembrare parte di un rituale. Questa combinazione di imitazione e selettività è alla base dell’apprendimento sociale necessario per il livello di trasmissione culturale da cui dipenderebbe la sopravvivenza della nostra specie, affermano gli autori.  Altri studi, inoltre, hanno dimostrato che i bambini continuano ad emulare dei comportamenti rituali, seppur ridondanti, rigidi e ripetitivi – ma non emulano gli errori (Over & Carpenter, 2012).
Continuando con la nostra metafora, in maniera simile a quanto avviene nell’arco della nostra vita, nell’arco dell’evoluzione abbiamo appreso per imitazione delle strategie che hanno facilitato la costruzione di convenzioni e norme sociali, rafforzato i nostri legami e permesso alla civiltà di progredire sopportando sfide come quelle delle carestie, delle pandemie, delle catastrofi. Da questa prospettiva, è chiaro che – nell’arco della nostra vita così come nell’arco della nostra evoluzione come specie – non siamo affidati né continuiamo ad affidarci ai rituali semplicemente per un semplice errore, ma perché svolgono una vera è propria funzione, sebbene il nesso causale tra azione e risultato sia completamente opaco (e inesistente).

I rituali per ridurre stress e ansia

Partiamo da un assunto: prima di affrontare una situazione che ci spaventa o oggettivamente rischiosa, il nostro sistema nervoso autonomo sarà molto impegnato a rilasciare una serie di ormoni dello stress che hanno la funzione di avvisare il nostro corpo che è il momento di prepararsi ad affrontare un pericolo – reale o percepito. Il nostro battito cardiaco aumenta per mandare più sangue ai muscoli, il respiro diventa più pesante per fornire l’ossigeno necessario, i muscoli si preparano a reazioni di attacco o fuga, la nostra attenzione e i nostri riflessi si acuiscono. Insomma: è chiaro che lo stress agisce come motivatore e ci aiuta a concentrarci rispetto alla sfida che ci aspetta. Il problema è che, dopo una certa soglia, lo stress smette di essere funzionale. In particolare due studiosi hanno elaborato l’omonima legge di Yerkes-Dodson (1908) che ipotizza una relazione inversa (a U invertita), tra livelli di stress e processi cognitivi: livelli eccessivi di stress ci portano a conseguenze devastanti in termini di salute mentale e performance, trasformandosi in un fenomeno decisamente non adattivo. Perché allora abbiamo questa risposta biologica che può fare così facilmente cilecca? La risposta sta nei tempi evolutivi (qui abbiamo spiegato cos’è l’evolutionary mismatch): per la maggior parte dell’evoluzione umana lo stress rappresentava una risposta completamente sensata in un ambiente all’interno del quale l’allerta che consegue allo stress faceva la differenza fra la sopravvivenza o meno. La transizione da nomadismo e sedentarietà è iniziata ad avvenire poco meno di 12.000 anni fa: potrebbero sembrare tantissimi, ma per i tempi evolutivi sono davvero pochi. Per questo motivo, le nostre caratteristiche fisiche o mentali sono rimaste perlopiù invariate: l’evoluzione biologica non è stata in grado di stare al passo con l’esponenziale sviluppo culturale e tecnologico e – di conseguenza – alcune risposte (come lo stress – appunto), fondamentali per la sopravvivenza dei nostri antenati, sono diventate ridondanti.

Alla luce di questo mismatch tra il nostro cervello e il nostro stile di vita – è stato necessario iniziare a sviluppare delle “tecnologie mentali” – come le definisce Xygalatas. I rituali potrebbero avere come obiettivo proprio la riduzione e la gestione dei livelli di stress.
L’osservazione sul campo (Sosis & Handwerker, 2011) sembrerebbe avvalorare questa teoria: durante la guerra in libano del 2006, le donne che vivevano in zone di guerra e che avevano l’abitudine di recitare dei salmi mostravano livelli più bassi di stress rispetto a coloro che non recitavano salmi. Questa differenza non era significativa tra gruppi di donne che non vivevano in zone di guerra.

Un limite di questi studi è che si basano su misure autoriportate: erano le donne stesse a definire i propri livelli di stress. Per questo, altri autori – compreso Xygalatas stesso (2022) – hanno cercato una misura oggettiva per verificare i livelli di stress, affidandosi ai livelli di cortisolo presenti nella saliva – per misurare la variazione di cortisolo nel breve termine – e nei capelli – per valutare la variazione di cortisolo nel medio e lungo termine. Il cortisolo è un ormone prodotto su impulso del cervello come risposta a momenti di stress e tensione: provocando l’aumento di  glicemia e grassi nel sangue, mette a disposizione del corpo l’energia di cui ha bisogno.

I risultati hanno dimostrato che gli studenti che partecipavano ad attività rituali durante una sessione d’esame non solo avevano livelli di stress più bassi, ma anche migliori performance (Xygalatas 2022). Queste evidenze empiriche ci parlano di un’associazione ma non ci dicono molto a livello di nessi causali: gli studenti che generalmente hanno voti migliori potrebbero essere meno stressati e quindi aver più tempo libero per partecipare ad attività sociali ritualizzate, e non viceversa. 

Per poter trovare un nesso causale, gli scienziati hanno ideato una serie di esperimenti in grado di isolare le variabili e di assegnare in maniera casuale  i partecipanti alle diverse condizioni (attività rituale, come recitare il rosario vs. attività non rituale, come guardare un film), trovando gli stessi risultati: l’attività rituale permette di ridurre lo stress e l’ansia, probabilmente perché aumenta la nostra percezione di controllo su una situazione che altrimenti sarebbero altamente stressante e difficilmente sopportabile (Norton e Gino, 2014).


Per superare i limiti delle misure autoriportate, inoltre, i ricercatori si sono affidati a misure implicite che permettessero di misurare le reazioni e le variazioni degli stati fisiologici, come la variabilità della frequenza cardiaca (che può darci informazioni sui nostri livelli di ansia e di stress, appunto).  In questo studio in particolare, è stata misurata la capacità di ridurre gli stati d’ansia di alcune pratiche religiose della comunità indù Marathi delle Mauritius, e se la loro efficacia fosse facilitata dal grado di ritualizzazione presente in queste pratiche. Settantacinque donne sono state esposte ad una situazione d’ansia utilizzando il paradigma del public-speaking, dove viene indotto uno stato d’ansia e di stress chiedendo ai partecipanti di prepararsi a parlare in pubblico. Per aumentare la capacità di generare ansia di questo stimolo e, di conseguenza la risposta fisiologica ad esso associata, alle partecipanti è stato detto che il loro discorso sarebbe stato registrato e valutato da un esperto governativo. Successivamente, è stato chiesto loro o di eseguire il loro rituale abituale in un tempio locale (condizione sperimentale) o semplicemente di sedersi e rilassarsi (condizione di controllo).

I risultati hanno rivelato che – dopo un iniziale aumento dell’ansia in entrambi i gruppi come conseguenza dell’esposizione allo stressor (la preparazione per parlare in pubblico), le partecipanti nella condizione rituale hanno riportato una minore ansia percepita dopo il trattamento rituale e hanno mostrato una minore ansia fisiologica, valutata tramite la variabilità della frequenza cardiaca.

Il ruolo del rituale come palliativo per gli stati d’ansia è conosciuto molto bene da atleti come Nadal che ricorrono a complicatissimi rituali prima di un match.

In questo video potete vedere un minuto di preparazione pre-servizio, ma Nadal ha un ricchissimo protocollo rituale che include fare una doccia gelata 45 minuti prima di una partita e posizionare il suo tesserino del torneo con la foto rivolta verso l’alto). Quando vengono intervistati a riguardo, questi sportivi non si ritengono superstiziosi. Infatti, domanda Nadal all’intervistatrice, “se fossi superstizioso perché dovrei continuare a svolgere questi rituali che ho svolto in maniera identica sia prima di vincere che prima di perdere un match? Questi riti mi aiutano a concentrarmi e a mettermi in un mood competitivo: non è qualcosa che devo fare, ma se lo faccio mi sento più concentrato ed entro nel flow”

Nella spiegazione data da Nadal ci sono tre aspetti interessantissimi. Il primo riguarda la sua giustificazione e la sua affermazione di “non essere superstizioso” – tuttavia molti studi hanno individuato che la ritualizzazione di un comportamento spesso attiva i nostri bias tipici del ragionamento causale (Legare e Souza, 2014). Il secondo è legato alla percezione di controllo sulla situazione e sulla partita.

In uno studio Xygalatas, Mano e Baranowski-Pinto (2021a) hanno mostrato ad una serie di spettatori dei video di giocatori di basket durante una serie di tiri liberi. I video venivano interrotti nel momento esatto in cui la palla lasciava la mano del giocatore – ma prima di poter verificare l’esito del tiro. In una condizione, i giocatori avevano eseguito dei rituali (simili a quelli di Nadal e a quelli che avrete visto fare a tantissimi giocatori di basket) mentre nell’altra condizione no. Non solo i partecipanti stimavano una maggiore probabilità di successo nei tiri preceduti da un rituale – ma l’effetto aumentava se i giocatori si trovavano in una situazione di svantaggio all’interno della partita. Questo ha permesso ai ricercatori di affermare che minore era il controllo percepito (e vicario) sulla partita, maggiore era l’aspettativa che i rituali potessero funzionare. 

Infine, Nadal parla di “flow” – lo stato mentale all’interno del quale ci sentiamo così assorbiti da un’attività che tutto il resto sembra sparire, permettendoci di concentrarci in maniera ottimale su questa attività. E questo è forse un aspetto ancora più interessante, perché siamo abituati a parlare di flow come un’esperienza individuale, ma è possibile che i rituali generino un’esperienza di flow collettivo?

I rituali come esperienze collettive: la sincronizzazione del battito cardiaco

La pirobazìa – o fire walking – consiste nel camminare su un letto di braci ancora ardenti, o più raramente di attraversare un percorso in fiamme, a piedi nudi senza riportare danni o scottature.

In molte culture, da quella greco-ortodossa a quella dei clan Sawau delle isole Fiji fino alle tribù dei villaggi costieri delle isole Mauritius, queste attività rituali tradizionali vengono ritenute possibili proprio grazie all’intervento di una divinità o di una forza soprannaturale, che darebbe ai coraggiosi partecipanti il “potere” di rimanere illesi dopo la traversata. Sebbene esistano dei motivi scientifici in grado di spiegare perché sia fisicamente possibile camminare su braci ardenti senza riportare ustioni o scottature, Xygalatas e colleghi nei loro studi preferiscono approfondire le tantissime determinanti socio-psicologiche che permettono ai partecipanti ed alle partecipanti di trovare la motivazione, il coraggio, la concentrazione e l’autocontrollo necessari per affrontare la sfida, nonché le implicazioni e le conseguenze che derivano da un’esperienza collettiva così forte (e ne rafforzano la valenza emotiva e socio-culturale).

Nel suo lavoro di antropologo, racconta l’autore, quella dell’osservazione partecipante non è solo uno strumento o una tecnica di ricerca etnografica. L’esperienza racchiude un valore fortissimo proprio a causa della prolungata permanenza all’interno della comunità e della partecipazione alle attività del gruppo sociale.

L’autore ha provato sulla propria pelle (in tutti i sensi) l’intensità emotiva e il valore associato a questo genere di attività, quando durante una sua permanenza nel villaggio di San Pedro Manrique, in Spagna, dove è stato invitato a camminare a sua volta sul fuoco. Rifiutare avrebbe significato non solo offendere profondamente la comunità (che tramite un invito del genere, stava a tutti gli effetti riconoscendo lo studioso come un proprio membro), ma anche perdere la faccia, la credibilità e la fiducia che possono determinare il successo o il fallimento di un’esperienza di ricerca etnografica. Inoltre avrebbe minato la serenità del rituale stesso e – di conseguenza – la riuscita della raccolta dati. 

Per questo, durante la sua partecipazione al rito della notte di San Giovanni, l’autore ha attraversato a sua volta le braci ardenti, raccontando di aver provato emozioni intensissime, dalla paura all’eccitazione, dall’orgoglio alla gioia ma che nonostante l’estrema consapevolezza di quanto stava per fare, la grande euforia del momento aveva reso i dettagli dell’esperienza anche molto sfocati.

Proprio per questo motivo, insieme alle misure auto-riportate come le interviste post-camminata sul fuoco, Xygalatas e colleghi (2011) degli stati fisiologici dei partecipanti al rituale (attivi e spettatori), misurando le loro frequenze cardiache durante la cerimonia ed ipotizzando che ci sarebbe stata una sincronizzazione degli stati di arousal tra spettatori e veri e propri camminatori. I risultati mostrano dei pattern sorprendenti.

La frequenza cardiaca (in BPM) dei vari partecipanti (attivi o vicari) al rito di fire-waling. Si può notare che la frequenza è tanto più simile a quella del fire-walker con l’aumentare del legame affettivo e/o di parentela. Fonte: Xygalatas et al., 2011

L’ipotesi dei ricercatori è stata confermata e la frequenza cardiaca degli spettatori tendeva a sincronizzarsi con quella dei camminatori. Ma questa sincronizzazione avveniva ad una sola condizione: l’osservatore doveva avere un legame sociale (es. parentela o amicizia) con almeno uno dei camminatori. L’arousal condivisa è stata infatti individuata solo negli spettatori che si erano precedentemente identificati con almeno un firewalker, con livelli di sincronizzazione correlati all’intensità del legame affettivo.

Il valore dei rituali

Leggendo questi esperimenti – così come sfogliando il libro di Xygalatas – vi saranno venuti in mente tantissimi rituali che hanno segnato la vostra vita. Probabilmente (se avete trascorso sul pianeta terra gli ultimi due anni della vostra vita) vi saranno venuti in mente anche i tanti rituali che non avete potuto vivere, che avete dovuto rimandare o festeggiare in una maniera un po’ diversa dal solito.

La sospensione dei riti dovuta alla pandemia (ne abbiamo parlato anche nell’articolo dedicato alla ritualità in pandemia) è un esempio estremamente calzante perché ci ha rivelato una verità importantissima sui rituali: sebbene siano resistentissimi al cambiamento, svolgono funzioni troppo importanti per poterne fare a meno e – per questo motivo – si adattano rapidamente quando delle nuove circostanze estreme lo richiedono.

Dalle cerimonie di laurea con brindisi virtuali su Zoom alle nuove opportunità di socialità, come i concerti sui balconi: dovremmo aver compreso inconsapevolmente l’importanza dei rituali proprio quando molti di questi ci sono stati tolti e – per un po’ – abbiamo dovuto inventarne degli altri.

Anche grazie alle metodologie tipiche delle neuroscienze e della ricerca comportamentale – che ci permettono di indagare i rituali con un nuovo approccio scientifico –  abbiamo iniziato a scoprire più a fondo uno degli aspetti che ci definisce come esseri umani e ci distingue dalle altre specie – afferma Xygalatas: siamo animali rituali.

Bibliografia

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L’autrice

Serena Iacobucci è dottoressa di Ricerca in Business & Behavioural Sciences ed attualmente Editorial Outreach Specialist per Frontiers, casa editrice svizzera di riviste scientifiche open-access. Ex ricercatrice post-doc e cultrice della materia in Economia e Finanza Comportamentale, si è occupata di consulenza e ricerca in Linguistica e Comunicazione Digitale ed è Content & Digital Strategist per lo spin-off Umana-Analytics. Serena è la Co-Editor in Chief e responsabile della comunicazione di EconomiaComportamentale.it, editor associata e responsabile della comunicazione digitale di InMind Italia – una rivista trimestrale dedicata alla psicologia sociale – e Social Media Officer dell’Associazione Internazionale per la ricerca in Psicologia Economica (IAREP – International Association for Research in Economic Psychology).


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