(Modelli) animali fantastici e dove trovarli: comprendere il comportamento umano con l’ecologia comportamentaleTempo di lettura stimato: 26 min

🏆 Questo articolo ha vinto il Best Paper Award 2022 come miglior articolo divulgativo pubblicato sul nostro blog.

di Luca Giacometti Giordani

Immaginiamo di chiedere a qualche passante per strada come pensa sia organizzato il cervello umano. Probabilmente, digiuni di una conoscenza strutturata delle neuroscienze, alcuni parleranno a grandi linee dei due emisferi, altri ricorderanno il nome di qualche lobo. Non mi stupirebbe, però, se qualcuno rispondesse che il cervello è diviso tra una parte più animale e una parte più umana. 

Questa visione gerarchica del nostro cervello deriva dall’influente teoria del cervello trino di Paul MacLean (vedi “The Triune Brain in Evolution: Role in Paleocerebral Functions”, 1990). Secondo MacLean, l’encefalo si dividerebbe in tre aree, separate sia filogeneticamente (vale a dire, nei processi biologici che hanno portato alla loro formazione nel corso dell’evoluzione) che spazialmente. Tali aree sarebbero specializzate in diversi compiti: dal cervello rettiliano che si occupa delle risposte più animali, rapide innate e incontrollabili, a quello neomammaliano, a cui si riferiscono le funzioni cognitive più alte, quelle considerate propriamente umane. Questa teoria, seppur sia fondata su presupposti anatomici errati (“A theory abandonded but still compelling”, 2008), ha influenzato (e tutt’ora influenza) il nostro modo di analizzare i comportamenti umani.

Tra tutte le capacità cognitive umane, una delle più studiate è il decision-making. Secondo l’economia classica, l’essere umano, quando prende una decisione, è capace di analizzare ogni informazione disponibile e di fare sempre la scelta più vantaggiosa, è un homo oeconomicus dalla razionalità impeccabile. Tuttavia, i modelli dell’economia classica sono appunto modelli, che non hanno mai trovato riscontro nella pratica. La realtà dei comportamenti osservati, infatti, ci dice che l’uomo è ben lontano dall’essere un decisore pienamente razionale. D’altro canto, può essere che l’uomo sia l’unico essere biologico a prendere decisioni sempre perfettamente razionali in ogni contesto?

Nei decenni più recenti, anche grazie agli studi di Kahneman (vedi “Pensieri Lenti e Veloci”, 2011), l’attenzione di chi studia economia comportamentale si sta (ri)focalizzando sempre di più sull’influenza dei processi animali nelle decisioni che prendiamo. Questi processi, che secondo Kahneman sono appannaggio del cosiddetto Sistema 1, sono veloci, inconsci ed emotivi. Questo approccio, basato anche sulla teoria della razionalità limitata di Simon (1955), è stato però spesso usato come grimaldello per forzare l’interpretazione di alcuni nostri processi decisionali stereotipati e, all’apparenza, mal adattivi, derubricandoli sotto l’etichetta di bias decisionali o di euristiche.

Invece di etichettarli come un generico rimasuglio evolutivo, molti autori stanno iniziando a interessarsi sul come alcuni nostri processi decisionali apparentemente irrazionali si siano sviluppati, e sul perché si siano mantenuti attraverso il tempo (Hayden, 2018). Per comprendere processi che – riferendosi alla teoria di MacLean – fanno parte del nostro cervello animale, non resta che approfondire le teorie sviluppate, appunto, per gli animali, e vedere se possono aiutarci a comprendere in modo più approfondito anche il comportamento umano. Come vedremo, infatti, l’applicazione di modelli dell’ecologia comportamentale (tra le quali faremo specifico riferimento alla Foraging Theory) al comportamento umano sta fornendo uno sguardo diverso su diversi aspetti del nostro decision-making.

Processi veloci ed evolutionary mismatch: l’architettura del nostro decision-making

Come evidenziato da Gigerenzer (2001), gli economisti comportamentali hanno spesso travisato il concetto di razionalità limitata, appigliandosi sempre più ossessivamente al fascino dei bias cognitivi. Contrariamente alle analisi più superficiali, però, i bias e le euristiche non si sono sviluppati per errore, ma servono invece a produrre decisioni più efficaci. Grossa parte della loro efficacia, tuttavia, si basa su un concetto che è chiave per l’ecologia comportamentale, ma che è invece colpevolmente negletto dall’economia comportamentale, ovvero il contesto.

Come vedremo in seguito, le teorie ecologiche, ed in particolare la Foraging Theory, esplorano le ragioni delle decisioni da un presupposto diverso: non si enfatizzano i processi mentali di un operatore razionale, quanto piuttosto si analizza l’ambiente in cui la decisione è stata presa. Questo cambio di paradigma permette di analizzare le decisioni non più attraverso la dicotomia razionale/non razionale, ma sotto quella di funzionalità/non funzionalità. 

Questa prospettiva, secondo la quale i nostri moduli decisionali sono contesto-dipendenti, permette una comprensione più profonda di quei comportamenti che verrebbero altrimenti considerati maladattivi. Analizzando infatti i contesti, molti di questi comportamenti possono essere ricondotti a un evolutionary mismatch, ovvero a una discrepanza tra gli ambienti in cui si sono sviluppati alcuni nostri moduli comportamentali ed il mondo in cui, invece, viviamo adesso (Li et al., 2020). 

Per esempio, attraverso la lente dell’evolutionary mismatch è stato analizzato il problema dell’obesità, una piaga sanitaria della nostra società moderna. Secondo quest’ottica, molte persone svilupperebbero questa patologia a causa dell’attivazione di meccanismi adattivi che erano fondamentali in contesti più ancestrali, ma non lo sono più. Alcuni trigger ambientali attiverebbero quindi dei processi (sia metabolici che comportamentali) che portano a pattern decisionali orientati verso l’assunzione di risorse energetiche, come cibi calorici e zuccherati. Questi pattern, però, si attivano in un contesto (quello delle nostre moderne società)  in cui la scarsità di cibo non è più un problema (Nettle, Andrews & Bateson, 2017; Prentice, Rayco-Solon & Moore, 2005).

Se nel paleolitico fare una scorta di fruttosio e glucosio significava poter far fronte a periodi di carestia con maggiori forze, oggi non è più così: abbiamo accesso quotidiano a cibi calorici ed energetici e – sebbene non ci aspettino periodi di magra – il nostro cervello ne è attratto a causa di millenni di evoluzione in cui una scorta di zuccheri nel corpo poteva fare la differenza tra la vita e la morte Un secondo esempio, ancora più tangibile, è legato alla recente epidemia da Covid-19. Il segnale legato a un pericolo sconosciuto ha spinto le persone di tutto il mondo – come prima cosa – a racimolare il maggior numero di provviste possibile, prendendo quindi d’assalto i supermercati (Dickins & Schalz, 2020).

Il decision-making da laboratorio: di solito non scegliamo così

In tantissimi anni di ricerca sulle decisioni, si sono consolidate alcune prassi legate a specifici compiti sperimentali. In economia comportamentale, compiti come quelli per misurare il discounting temporale o probabilistico, o come i giochi economici, si sono prestati a innumerevoli utilizzi, mentre nell’ambito del marketing il decision-making dei consumatori viene testato per lo più tramite scelte multiple o binarie. Questi paradigmi, tuttavia, non sono strumenti adatti a descrivere a pieno la complessità delle decisioni che ci troviamo a fronteggiare nella vita quotidiana:

  • Una sequenza di decisioni dicotomiche del tipo “accetta/rifiuta”, scollegate le une dalle altre, non è rappresentativa del nostro ambiente, in cui ogni azione che compiamo si ripercuote sulle decisioni che dovremo prendere in seguito.
  • La scelta, tipica del marketing, tra due diversi beni o oggetti presentati simultaneamente non trova corrispondenti nella vita quotidiana: solitamente ci troviamo a operare una decisione accetta/rifiuta per un oggetto alla volta, tanto che alcuni autori sono giunti a ipotizzare che, durante un confronto binario, le persone non esprimano il frutto di una preferenza, quanto piuttosto due scelte accetta/rifiuta sequenziali (Hayden, 2018).

Come già detto in precedenza, quindi, il focus sul processo invece che sul contesto ha tolto e toglie all’economia comportamentale molta di quella prospettiva ecologica che permette invece di inquadrare i nostri comportamenti. Scelte come: “quand’è il momento giusto di lasciare il mio lavoro per cercarne uno nuovo?” “Compro questa maglietta oppure ne cerco una migliore in un altro negozio?” Non possono essere descritte efficacemente da compiti riduzionisti come quelli dell’economia comportamentale.

Foraging Theory: cos’è e cosa può aggiungere allo studio del comportamento umano

Uno stormo di fenicotteri si è stabilito in un grande lago. Un etologo, molto incuriosito dal loro comportamento alimentare, si chiede perché questi volatili indugino così a lungo in un’area del lago con acque più profonde, in cui devono spendere tanto tempo ed energie per immergersi e catturare delle prede. Nello stesso lago, infatti, ci sono altre zone con acque meno profonde, e con tante prede in più, anche se molto più piccole.

Questo esempio, come molti altri esempi di animali che si muovono nel proprio habitat alla ricerca di nutrimento, ha ispirato una branca dell’ecologia comportamentale denominata Foraging Theory (Stephens & Krebs, 1986). Diversamente dalla natura puramente osservazionale di molti approcci legati all’economia comportamentale umana, la Foraging Theory si basa sul confronto tra il comportamento reale e quello ideale. Nell’esempio precedente dei fenicotteri, si potrebbe infatti approcciare il problema cercando di capire, innanzitutto, quale sarebbe il comportamento ottimale per massimizzare la quantità di energia immagazzinata nel proprio habitat. Infatti, in un ambiente dinamico, vari fattori sono da tenere in considerazione: il tempo impiegato per la ricerca di una preda, le energie spese per catturarla, il ritorno energetico di ogni preda, la velocità di impoverimento dell’habitat man mano che si usufruisce delle fonti di nutrimento. 

L’approccio della Foraging Theory, quindi, mira a creare modelli matematici di ottimalità, con i quali confrontare il comportamento reale degli animali; i quali, il più delle volte, riescono ad avvicinarsi, tramite le proprie scelte, alla massimizzazione prevista dai modelli di Foraging (Charnov, 1976).

Nato dall’osservazione dei comportamenti in habitat naturali, il Foraging si è poi sviluppato anche nella creazione di paradigmi di laboratorio che, seppur più controllati, mantenessero comunque intatti gli elementi chiave di questo approccio ecologico: tutte le scelte sono basate su fattori temporali ed energetici, sulle prospettive di impoverimento dell’ambiente e sui bisogni, e non sono mai scollegate le une dalle altre; anzi, ogni scelta presa modifica dinamicamente l’habitat, andando a influire sul contesto in cui verranno operate le scelte successive.

Dati i limiti dei paradigmi riduzionisti dell’economia comportamentale, e dato l’equivoco delle fallacie comportamentali e dei bias, molti autori hanno iniziato ad applicare un approccio ibrido tra scienze psicologiche e scienze ecologiche per attingere dall’impostazione della Foraging Theory, capace di tenere in considerazione i contesti dinamici in cui le nostre scelte vengono prese.

Due casi in cui l’ecologia comportamentale ha ribaltato la prospettiva di analisi di comportamenti umani

Il fiorire di studi di contaminazione tra gli ambiti dell’ecologia e quello della psicologia del decision-making si è focalizzato sia sulla creazione di modelli computazionali, in grado di prevedere l’ottimalità delle decisioni umane nei vari ambienti, sia sull’applicazione di paradigmi ispirati alla Foraging Theory per riesaminare alcuni costrutti classici sul comportamento. Usare paradigmi nati originariamente per lo studio delle scelte alimentari degli animali nel proprio habitat è stato possibile perché, come si è dimostrato in diversi studi, anche gli esseri umani assumono comportamenti decisionali che si avvicinano alla massimizzazione delle risorse in habitat dinamici.

Di seguito sono illustrati due casi in cui questa prospettiva ibrida ha fornito una prospettiva di analisi diversa da quella abituale della psicologia cognitiva.

La mancanza di self-control da caso a caso

Un’assunzione che nella psicologia classica e nell’economia comportamentale è rimasta granitica nel tempo è quella secondo la quale il decision-making, quando sano e funzionale, preveda un grado elevato di autocontrollo. Basti pensare alle implicazioni contenute in uno dei compiti più utilizzati dall’economia comportamentale, ovvero il discounting temporale, utilizzato per rilevare l’impulsività in pazienti con lesioni cerebrali, oppure anche al famoso Stanford Marshmallow Task, tramite i risultati del quale si è arrivati a concludere che i bambini che riescono a resistere alla tentazione di prendere un marshmallow subito, per poterne ottenere due in seguito, sono quelli che svilupperanno, nella loro vita adulta, maggiore intelligenza, maggiori capacità emotive e minori comportamenti a rischio (studio che, come si è visto in seguito, ha una conclusione eccessivamente perentoria e evidenzia importanti limitazioni sperimentali).

Questa concezione dicotomica del self-control è stata messa in discussione da uno studio ispirato dall’ecologia comportamentale. Reynolds & McCrea (2017), tramite un semplice videogioco online chiamato “Food Quest”, hanno manipolato la stabilità e la ricchezza dei diversi ambienti, dimostrando come gli individui che indulgevano più spesso in comportamenti impulsivi, rischiosi ma potenzialmente più remunerativi, erano quelli che avevano maggiori chances di sopravvivenza e si avvicinavano di più all’ottimalità in ambienti instabili e/o poveri di risorse. 

Gioco d’azzardo e comportamenti esplorativi

Un secondo esempio di applicazione dell’approccio ecologico ai comportamenti umani è legato alla sfera del comportamento patologico, ed in particolare a quella del gioco d’azzardo. Nello studio delle dipendenze, i cattivi adattamenti comportamentali che vengono considerati come causa principale di queste patologie sono la tendenza ad adottare comportamenti perseverativi e la scarsa reattività a feedback negativi. Tuttavia, Addicott e colleghi (2015), utilizzando un compito di Foraging classico, hanno notato come l’errore più comune che portava le persone dipendenti dal gioco d’azzardo a performare peggio rispetto all’ottimalità prevista dai modelli matematici era quello di prendere molte scelte di natura esplorativa, cioè di cambiare troppo spesso la propria zona di foraging alla ricerca di altre prede.

Questo risultato ha permesso di integrare la nostra conoscenza sui comportamenti che contribuiscono a creare un pattern di dipendenza: non è solo la perseverazione ad essere patologica, ma anche il bisogno di esplorazione dell’ambiente. Infatti, si può ipotizzare che uno dei motivi per cui i giocatori d’azzardo continuino a scommettere nonostante i ripetuti feedback negativi sia quello di sentire il bisogno di continuare ad esplorare il gioco per vedere cosa c’è dopo, nei turni successivi. 

Questi studi sono un esempio di quanta informazione si possa aggiungere a costrutti che diamo già per assodati solamente inserendo i processi decisionali all’interno di un contesto dinamico, in cui l’ambiente influenza le scelte e le scelte stesse influenzano l’ambiente.

Social Foraging: le decisioni sociali degli esseri umani

Una limitazione che potrebbe sembrare evidente quando si immagina di applicare un approccio nato per studiare le decisioni di caccia e raccolta degli animali alle decisioni umane, è che i bisogni più importanti e pressanti per noi esseri umani non sono più strettamente legati alla sfera del soddisfacimento energetico. Fortunatamente però, i principi dell’ecologia comportamentale possono essere applicati a decisioni che abbraccino qualsiasi necessità. E siccome la grande forza dell’essere umano è avere creato una vita di comunità di straordinaria complessità, è indubbio che molti dei nostri bisogni primari risiedano nella sfera sociale. Tramite la lente del Foraging, quindi, sono state analizzate sia le decisioni prese dalle comunità, che quelle prese per la comunità, che le decisioni prese per sé stessi ma mirate al soddisfacimento di bisogni di tipo sociale. 

Le scelte alimentari degli uomini, fin da epoche ancestrali, non sono state solo appannaggio del singolo, ma anche delle varie comunità e dei vari villaggi. Analizzando i dati di mobilità delle tribù nomadi nelle foreste pluviali (ovvero alcune delle tribù le cui usanze sono tutt’ora legate ai cicli della natura), si è visto come le loro scelte su quando e dove spostarsi si avvicinano all’ottimalità postulata dai modelli matematici della Foraging Theory (Venkataraman et al., 2017).

Oltre a prendere decisioni di sopravvivenza, le comunità spingono gli individui anche a prendere decisioni prosociali, ovvero il cui fine non è a vantaggio di sé stessi, ma di qualcun altro nella comunità. Esempi di ciò si trovano anche in natura: basta guardare a come gli animali impollinatori tendano a lavorare a beneficio della comunità, e non direttamente per sé stessi. Sorprendentemente, questi animali rispettano l’ottimalità nelle proprie scelte di Foraging nonostante il fine delle proprie attività non sia quello della sopravvivenza individuale diretta (Giraldeau & Caraco, 2000).

Photo by Alli Remler on Unsplash

In modo simile agli animali impollinatori, anche gli esseri umani prendono spesso decisioni sul cercare e impiegare risorse per gli altri. Un esempio di ciò è la carità. In uno studio di Zacharopoulos e colleghi (2018), infatti, si è dimostrato come gli uomini rispettino l’ottimalità sia quando cercano risorse per sé stessi, che quando ricercano risorse da destinare in carità, dimostrando che il bisogno prosociale è un motivatore tanto forte quanto un bisogno biologico.

Infine, gli uomini non sono solo alla ricerca di risorse da destinare alla comunità, ma cercano proprio stimoli sociali per sé stessi, in modo non dissimile da come un animale cercherebbe nutrimento. In uno studio di Yoon e colleghi (2018), i partecipanti dovevano raggiungere con la vista diverse immagini sullo schermo. Quello che interessava gli sperimentatori era il vigore del movimento oculare per raggiungere l’immagine, a seconda del tipo di immagine e del posizionamento. Tra tutte le immagini, quelle di natura sociale (visi di altre persone), producevano maggiore vigore del movimento sia prima (anticipazione del reward) che dopo (risposta ad ambiente high-rewarding).

Marketing e Foraging: due influenti modelli ispirati all’ecologia comportamentale

Se, come abbiamo visto, i modelli matematici nati per descrivere le scelte alimentari in un determinato habitat si possono applicare anche a bisogni che non siano necessariamente calorici (come, per esempio la ricerca di stimoli di natura sociale), allora si può di applicare una prospettiva Foraging anche alle decisioni che riguardano altri ambiti della nostra vita.

Rispetto a tutti gli altri animali, i bisogni umani sono radicalmente cambiati sia in termini di cosa cerchiamo che in termini di dove lo cerchiamo. Per esempio, un individuo potrebbe andare a caccia di un divano con un buon rapporto qualità/prezzo, oppure potrebbe dover scegliere dove procacciarsi il cibo tra due diversi supermercati in zona. Tuttavia, il più grande e rapido cambiamento nei nostri stili di vita è lo spostamento delle nostre attività dal mondo reale al web. 

È indubbio infatti che molti dei nostri bisogni vengano ad oggi soddisfatti tramite scelte operate online. Il fatto che le nostre decisioni economiche si siano spostate in un ambiente molto più controllato e controllabile ha creato innumerevoli possibilità di studio del comportamento dei consumatori e, di conseguenza, il fiorire dello sviluppo del marketing. 

Alcuni autori, partendo dai modelli della Foraging Theory, hanno visto un potente parallelismo tra i comportamenti di esplorazione e predazione degli animali nell’ambiente naturale e i pattern comportamentali degli uomini negli ambienti online, andando quindi a sviluppare degli approcci ibridi tra modelli ecologici, teorie economico-comportamentali e marketing. Di seguito riporterò due influenti approcci che sono stati sviluppati nella preistoria di internet, ma che mostrano la malleabilità ed il potenziale della Foraging Theory applicata ai comportamenti umani.

Behavioural Ecology of Consumption

Un approccio che è una diretta comparazione dei modelli di Foraging classico all’ambiente online è quello della Behavioural Ecology of Consumption (BEC), sviluppato da David Hantula (Di Clemente & Hantula, 2003; Hantula et al., 2008; Smith & Hantula, 2003). La BEC parte infatti dal presupposto che una persona che si deve muovere tra diversi siti per scegliere cosa comprare prende decisioni che, per natura, non sono troppo dissimili da quelle di un animale che sta cacciando, o che sta cercando del cibo da raccogliere. Dal punto di vista matematico, la BEC è quindi un’ibridazione tra i modelli Foraging e quelli di discounting, più tipici dell’economia comportamentale.

In una serie di studi, Hantula ha utilizzato un ambiente web a cui lui si riferisce come online mall. In questo centro commerciale, i partecipanti agli studi potevano navigare tra diversi siti che vendevano dischi musicali, tutti caratterizzati da differenze nella scelta, nei costi e nei tempi di caricamento. I dati raccolti dallo studio applicato della BEC, oltre ad aver aiutato a comprendere quali fossero i principali punti su cui lavorare per aumentare l’attrattività di un sito commerciale, hanno mostrato che le persone, così come avviene per gli animali, sono particolarmente sensibili alla variabile tempo.

In particolare, la scelta di optare per cercare in un negozio invece che in un altro è fortemente influenzata dal tempo di caricamento del sito: dovendo scegliere tra due siti con tempi di caricamento brevi, la differenza è chiaramente a favore del sito che si dimostra anche solo poco più veloce. Viceversa, per siti il cui caricamento è lungo, questa differenza è più sfumata (evidenziando quindi un trend iperbolico di discounting).

Inoltre, grazie alla sua ispirazione alla Foraging Theory, la BEC è stata in grado di prevedere e modellizzare un comportamento che, stando alle teorie di economia classica e di razionalità, non sembra, a prima vista, come perfettamente adattivo. Infatti, nella serie di studi di Hantula si è visto che gli individui, anche dopo aver trovato un sito vantaggioso, continuano a scegliere di spostarsi in altri siti, così come se li volessero provare tutti. Ciò, dal punto di vista ecologico, non è per niente sorprendente: in natura è un indubbio vantaggio competitivo conoscere in anticipo tutto ciò che l’ambiente ha da offrire. Continuare a servirsi sempre della stessa area di raccolta, infatti, potrebbe produrre una situazione catastrofica nel momento in cui quella fonte di nutrimento si impoverisse improvvisamente.

Information Foraging Theory

Oltre ai beni di consumo, un secondo bisogno che al giorno d’oggi viene soddisfatto prevalentemente tramite ricerche online è quello delle informazioni. L’uomo, come definito da George A. Miller, infatti, è un informativoro (volendo proporre una traduzione de termine inglese proposto dall’autore, “informavore”), ovvero un cacciatore di informazioni.

Basandosi su questa concezione, Pirolli e Card hanno creato e sviluppato l’Information Foraging Theory (IFT), un impianto teorico e sperimentale basato sull’applicazione dei modelli matematici della Foraging Theory classica applicati alle scelte che gli individui compiono quando cercano informazioni in ambienti online (1999). Questo approccio, oltre ad aver descritto come ci muoviamo nel web, ha anche avuto riscontri indiretti sul marketing e sull’user design.

L’IFT si basa su due concetti chiave: l’information diet e l’information scent

L’information diet è lo specifico tipo di informazione a cui è interessato l’utente in quel momento. Questa, pur riguardando lo stesso macro-argomento, può differire sia per quantità di elementi che ne compongono le sue parti che per livello di approfondimento, e guida la ricerca in modo top-down. Per esempio, due persone potrebbero essere entrambe interessate a una vacanza in Toscana, ma mentre una è interessata a cercare informazioni su quale sia la tipologia di alloggio migliore per godersi la regione, l’altra sta già cercando un appartamento in affitto in Versilia, per luglio.

L’information scent, invece, è un concetto più astratto, ma nonostante ciò è chiave per la comprensione dell’IFT. In sostanza, mentre si muovono online, gli utenti cercano continuamente di estrarre dai cues in quel momento disponibili (immagini, keywords, descrizioni) la probabilità (soggettiva) di incontrare un certo numero di informazioni utili.

Queste stime, basate su euristiche e informazioni imperfette, sono appunto le information scents, e servono a guidarci nelle scelte online. Le information scents si possono ricavare sia dai siti su cui si è già (cues che indicano la possibilità di trovare altre informazioni rilevanti continuando a cercare nello stesso sito) che da altre possibili pagine web (cues che suggeriscono che, spostandosi in uno specifico sito tramite hyperlinks o motori di ricerca, si potranno trovare informazioni interessanti; Pirolli, 2007).

Lo studio del comportamento di ricerca web a partire dai modelli dell’IFT ha mostrato come, effettivamente, gli utenti si comportino in modo molto simile a quello degli animali nel loro ambiente: similmente alla capacità degli animali di valutare il valore di una preda o di un’area di predazione in relazione al valore complessivo del proprio ambiente, così anche gli utenti online decidono quando spostarsi da un sito a un altro in base al valore marginale delle information scents, ovvero mostrano una grande sensibilità nel confrontare le singole information scents con il valore medio presunto di tutte le information scents di quell’ambiente web in quello specifico momento, capendo quando convenga seguirne una piuttosto che un’altra. In questo modo, gli utenti riescono a massimizzare il rapporto tra informazioni ottenute e tempo di ricerca speso.

Tra i diversi campi che sono stati influenzati dall’IFT, vale la pena ricordare come l’impianto concettuale di questa teoria abbia contribuito a migliorare l’user design per siti web, nelle sue prime fasi di sviluppo. Infatti, inizialmente, lo user design era incentrato sulla nozione secondo cui il modo migliore per costruire un sito era partendo dall’idea di struttura che gli si voleva dare. In questo modo, molte pagine web avevano un’architettura home-page centrica.

Le suggestioni dell’IFT hanno invece contribuito a spostare il focus dalla struttura al contenuto. Come visto dagli studi basati su questo modello, infatti, gli utenti si muovono online guidati dalla ricerca di uno specifico contenuto, di una specifica informazione. In seguito, infatti, i nuovi siti con un’architettura content-based piuttosto che structure-based si sono rivelati più efficaci nell’attrarre traffico (Russell-Rose & Tate, 2012).

Oltre all’influenza sull’architettura dei siti, i concetti di information diet e information scents sono stati anche il perno attorno al quale alcune delle prime guide sullo user design online hanno stilato indicazioni su come far passare le informazioni più importanti attraverso l’ordine dei contenuti e dell’impaginazione web (information scents), e su come facilitare il traffico di ritorno sul proprio sito (information diet e scelta del sito; Nielsen, 2003; Spool, Perfetti & Brittan, 2004).

Conclusione

In questo articolo abbiamo visto una carrellata di esempi in cui l’applicazione di teorie e approcci, nati per lo studio del comportamento degli animali, ha fatto progredire anche la conoscenza sui comportamenti umani, sia dal punto di vista prettamente psicologico che da quello dell’economia comportamentale e del marketing.

E, pur essendoci fermati qui, bisogna sottolineare che questo approccio ibrido sta avendo anche grande risonanza in ambienti accademici per quanto riguarda lo studio delle neuroscienze computazionali, con l’intento di applicare questi modelli matematici ad intelligenze artificiali che saranno sempre più in grado di avvicinarsi alla complessità della nostra capacità di prendere decisioni a seconda dei contesti.

Ricordandoci del cervello trino di Paul MacLean, possiamo quindi dire che lo studio dei nostri comportamenti filogeneticamente più animali è oggi ancora più importante, ma per farlo dobbiamo procedere in un’ottica differente rispetto a quella dell’economia comportamentale mainstream: non bisogna più utilizzare il parallelismo tra noi e gli animali per parlare solo dei comportamenti istintivi, o di quelli che comportano una perdita di autocontrollo, ma bisogna usare gli strumenti dell’ecologia comportamentale per analizzare quei moduli comportamentali che ancora oggi abbiamo e che abbiamo sviluppato, centinaia di migliaia di anni fa, in ambienti naturali comuni. Solo in questo modo un approccio ibrido potrà veramente espandere le nostre conoscenze.

L’autore

Luca Giacometti

Luca Giacometti Giordani è un dottorando di ricerca in Business and Behavioural Sciences. È intessato a come i nostri comportamenti espliciti (soprattutto quelli di natura economica) siano influenzati implicitamente dai processi cognitivi spontanei e dagli stati fisiologici del nostro corpo. Nel tempo libero fa l’allenatore di atletica leggera.

Vuoi ricevere altri contenuti come questo direttamente nella tua mail?
Iscriviti al form in basso, ti manderemo un articolo al mese – fresco di editing e non una mail in più.

Iscriviti alla newsletter del nostro Blog

* indicates required

Bibliografia

Addicott, M. A., Pearson, J. M., Kaiser, N., Platt, M. L., & McClernon, F. J. (2015). Suboptimal foraging behavior: A new perspective on gambling. Behavioral Neuroscience, 129(5), 656–665. https://doi.org/10.1037/bne0000082

Hantula, D. A., Brockman, D. D., & Smith, C. L. (2008). Online Shopping as Foraging: The Effects of Increasing Delays on Purchasing and Patch Residence. IEEE Transactions on Professional Communication, 51(2), 147–154. https://doi.org/10.1109/TPC.2008.2000340

Hayden, B. Y. (2018). Economic choice: The foraging perspective. Current Opinion in Behavioral Sciences, 24, 1–6. https://doi.org/10.1016/j.cobeha.2017.12.002

Li, N. P., Yong, J. C., & van Vugt, M. (2020). Evolutionary psychology’s next challenge: Solving modern problems using a mismatch perspective. Evolutionary Behavioral Sciences, 14(4), 362–367. https://doi.org/10.1037/ebs0000207

Reynolds, J. J., & McCrea, S. M. (2019). Environmental constraints on the functionality of inhibitory self-control: Sometimes you should eat the donut. Self and Identity, 18(1), 60–86. https://doi.org/10.1080/15298868.2017.1354066

Yoon, T., Geary, R. B., Ahmed, A. A., & Shadmehr, R. (2018). Control of movement vigor and decision making during foraging. Proceedings of the National Academy of Sciences, 115(44). https://doi.org/10.1073/pnas.1812979115

Brueck, Hilary. “The famous Stanford ‘marshmallow test’ suggested that kids with better self-control were more successful. But it’s being challenged because of a major flaw.”. businessinsider.com, 2018.

Charnov E. L. (1976). Optimal foraging, the marginal value theoremTheoretical population biology9(2), 129–136.

DiClemente D., & Hantula D. (2003). Optimal foraging online: Increasing sensitivity to delay, Psychology & Marketing, 20(9), 785–809.

Farley, Peter. “A Theory Abandoned but Still Compelling”, Yale Medicine Magazine, Autumn 2008.

Gigerenzer, G., & Selten, R. (Eds.). (2001). Bounded rationality: The adaptive toolbox. The MIT Press.

Giraldeau, L.A., & Caraco, T. (2000). Social Foraging Theory. Princeton University Press.

Kahneman, D. (2011). Pensieri lenti e veloci, Traduzione di L. Serra, Mondadori, Milano.

MacLean, P. D. (1990). The triune brain in evolution: Role in paleocerebral functions. New York: Plenum Press.

Nettle, D., Andrews, C., & Bateson, M. (2017). Food insecurity as a driver of obesity in humans: The insurance hypothesis. Behavioral and Brain Sciences, 40, e105.

Nielsen, J. “Information foraging: Why Google makes people leave your site faster”. Nngroup.com, 2003.

Pirolli, P. (2007). Information Foraging Theory: Adaptive Interaction with Information. Oxford University Press.

Pirolli, P., & Card, S. (1999). Information Foraging. Psychological Review, 106(4), 643–75.

Prentice, A. M., Rayco-Solon, P., & Moore, S. E. (2005). Insights from the developing world: Thrifty genotypes and thrifty phenotypes. Proceedings of the Nutrition Society, 64 (2), 153–161.

Russell-Rose, T., & Tate, T. (2012). Designing the Search Experience: The Information Architecture of Discovery. Morgan Kaufmann Publishers.

Simon, H. A. (1955). A Behavioral Model of Rational ChoiceThe Quarterly Journal of Economics, 69(1), 99–118.

Smith, C., & Hantula, D. (2003). Pricing effects on foraging in a simulated Internet shopping mall, Journal of Economic Psychology, 24(5), 653–674.

Spool, J. M., Perfetti, C., & Brittan, D. (2004). Designing for the scent of information. Middleton, MA: User Interface Engineering

Stephens, D. W., & Krebs, J. R. (1986). Foraging Theory, Princeton University Press.

Venkataraman, V.V., Kraft, T.S., Dominy, N.J., Endicott, K.M. (2017). Hunter-gatherer residential mobility and themarginal value of rainforest patches. PNAS, 114, 3097–102.

Zacharopoulos, G., Shenhav, A., Constantino, S., Maio, G.R., Linden, D.E.J. (2018). The effect of self-focus on personal and social foraging behaviour. Social Cognitive and Affective Neuroscience, 13, 967–75.

Dickins, T. E., & Schalz, S. (2020). Food shopping under risk and uncertainty. Learning and Motivation, 72, 101681.

Lascia un commento