La deliberata ignoranza: quando e perché scegliamo di non sapereTempo di lettura stimato: 24 min

di Serena Iacobucci


Secondo la mitologia greca, Apollo concesse a Cassandra il dono della profezia. Un regalo così grande da parte del figlio di Zeus non poteva ovviamente essere privo di interessi. E gli interessi della divinità nei confronti di Cassandra erano amorosi. Tuttavia, la profetessa non si concesse ad Apollo che, infuriato da questo rifiuto, vanificò il dono che le aveva impartito: Cassandra continuò ad essere in grado di prevedere il futuro ma venne maledetta da Apollo affinché nessuno credesse più alle sue previsioni.

La profetessa predisse la distruzione di Troia ma i suoi avvertimenti urlati alla folla festante che introduceva il cavallo di legno costruito dai greci in segno di resa rimasero inascoltati. Dovette assistere – altrettanto impotente – alla morte di suo padre Priamo. Dolorosamente – predisse anche la sua stessa morte – nonché il nome del proprio assassino.

La punizione inflitta da Apollo a Cassandra fu quindi terribilmente straziante e consumata in una profonda solitudine. Nonostante il triste destino spettato a Cassandra, la capacità di prevedere il futuro ha generalmente sempre assunto una valenza positiva, in quanto associata – ad esempio – alla possibilità di incorporare nuovi dati e informazioni all’interno del nostro processo decisionale e, quindi, scegliere meglio.

Rispetto alla possibilità di prevedere il futuro, l’umanità si è arrangiata come ha potuto, attingendo tanto al sacro quanto al mistico. Se pensiamo al punto di partenza, cioè discipline come l’astrologia e dalla divinazione, ci rendiamo conto che i passi compiuti sono stati decisamente notevoli.

Progettazione ed all’applicazione di algoritmi sempre più accurati di machine learning in trade finance: oggi siamo in grado di effettuare previsioni finanziarie accurate grazie alla capacità di elaborare facilmente e velocemente un’enorme mole di dati e serie storiche. [1]
In altri campi, gli avanzamenti della ricerca biomedica e genomica ci permettono di effettuare test predittivi ed accurati, facilitando lo screening e la prediagnostica, permettendo di prevenire e/o combattere sul nascere un’ampia vasta gamma di patologie. C’è chi afferma di poter identificare con certosina accuratezza se, con quale probabilità, e addirittura quando verremo colpitə da alcune patologie [2]. Su fronti meno drammatici (ma nemmeno tanto…) c’è chi invece afferma di poter prevedere (con un’accuratezza del 90%) se e quando una coppia di neosposə divorzierà [3].

Con questo progressivo aumento della capacità predittiva di alcuni dei metodi a cui ci affidiamo, la linea sottile tra sconosciuto e conoscibile si è andata sempre più restringendo, rendendoci molto più Cassandra di quanto ritenessimo possibile.

Il valore della conoscenza

La conoscenza è sempre stata apprezzata ed ammirata, spesso remunerata. Per questo gli esseri umani – stando alla storia del pensiero filosofico, in particolare qui ci riferiamo a quello occidentale – sembrerebbero aver da sempre perseguito l’obiettivo di ricercarla ed acquisirne quanto più possibile. Da Adamo ed Eva, che attinsero dall’albero della conoscenza (aka, l’albero dell’Eden) violando persino il divieto posto da Dio stesso, passando per Aristotele, Hobbes e Bacon, per i quali la sete di conoscenza si intrecciava con un ardente desiderio, simile ma non completamente assimilabile al concetto di curiosità.

Arriviamo alla psicologia moderna, nonché alle teorie economiche di massimizzazione dell’utilità, i cui modelli assumono che una maggiore quantità di informazioni si traduca in maggior potere di contrattazione [4].

Persino il padre della psicanalisi, Freud, ci ammoniva invitandoci a liberarci dal giogo della repressione della conoscenza (negazione, o la cosiddetta “politica dello struzzo”) che mettiamo in atto per proteggerci dal dolore che a volte può derivarne.

bird on green grass
Uno struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia.
Foto di Wolfgang Hasselmann on Unsplash

Infatti, come ben intuito da Freud, e al contrario di Cassandra, non siamo condannatə né costrettə a sbirciare al nostro futuro, anzi – siamo liberə di (e spesso propensə a) non fare un test genetico per scoprire se svilupperemo o meno una malattia per cui c’è una predisposizione o una storia all’interno del nostro nucleo familiare. Così come nessunə ci costringerà a scoprire a quanto è quotato il nostro eventuale divorzio, poco prima di salire sull’altare.

La domanda che moltə si sono postə, Gigerenzer tra tuttə (per chi non avesse familarità con i suoi studi, un filone è proprio quella risk literacy, ovvero dell’educazione al rischio) è questa: quand’è – quindi – che decidiamo di proseguire lungo la strada della deliberata ignoranza, piuttosto che scoprire informazioni, seppur dolorose, da cui potremmo trarre beneficio?

La deliberata ignoranza

Human behaviour, however, is inconsistent with the proposition that knowledge is always perceived to be valuable

Sharot & Sunstein, 2020 [5]

Chiariamo, innanzitutto, cosa intendiamo per spazio di conoscenza, ovvero una struttura combinatoria che descrive i possibili stati di conoscenza dell’essere umano come discente.

L’ignoranza – di conseguenza – è uno spazio di conoscenza all’interno del quale non si conosce la risposta ad una domanda. Questa domanda può riguardare un qualunque evento – sia esso passato, presente o futuro – e la risposta può quindi essere conoscibile in maniera certa oppure con un determinato grado di incertezza. [6]

Per ignoranza deliberata, invece, intendiamo la decisione di non voler conoscere o avere accesso ad una determinata informazione, pur trovandosi all’interno di uno spazio di conoscenza in cui la risposta ad una domanda è facilmente conoscibile.

Secondo Sweeny e colleghə [7] l’ignoranza deliberata può risultare dall’inazione tanto quanto dall’azione, ovvero rifiutarsi attivamente di ascoltare l’informazione che qualcun altrə è dispostə a condividere con noi.

Albert e  Lucas [8] hanno riportato questa definizione in forma grafica – tramite uno spazio di conoscenza – composto da una serie di N domande e le relative risposte, siano esse risposte qualitative (“Darth Vader è mio padre? Sì/No”) o quantitative (“Qual è la probabilità di morire per incidente stradale percorrendo 400km in automobile?”).

Fig. 1 Come si vede dalla figura (rielaborazione dell’autrice, da Gigerenzer e Garcia-Retamero, 2017 [6]), uno spazio di conoscenza individuale che include l’ignoranza deliberata è rappresentata da un insieme N di domande.
I segni (-) +  rappresentano le domande per le quali (non) si è conoscenza della risposta (Ni), i segni – riportati nei cerchi neri sono invece le domande per le quali non si ha una risposta né si vuole conoscerla (Ndi), pur avendone la possibilità.
Per tale ragione, l’ignoranza deliberata esiste se NiNdi > 0.

Per cui, formalmente, si parla di ignoranza deliberata se, e solo se:

 Condizione 1. Si opta per l’ignoranza anche se l’accesso all’informazione non ha alcun costo;
Condizione 2. Si opta per l’ignoranza a discapito del proprio interesse personale.

La condizione 1, quindi, chiarisce che si sta agendo in maniera assolutamente non in linea con la teoria sistematica della ricerca razionale di informazioni [9] – che afferma che il costo connesso al reperimento delle informazioni è alla base del calcolo effettuato da ogni soggetto razionale sull’opportunità o meno di cercare di acquisire informazioni addizionali.

La condizione 2, invece, sottolinea la rilevanza dell’informazione per l’agente che – tuttavia – invece decide di ignorarla.

Un’altra sostanziale caratteristica dell’ignoranza deliberata è che essa non è collegata a limitazioni cognitive di sorta, come ad esempio mancanza di memoria o bias di sorta, come il bias di conferma. Negli esperimenti tipici della letteratura legata al bias di conferma, infatti, gli agenti coinvolti – seppur faziosamente – risultano alla ricerca attiva di informazioni – mentre coloro che scelgono l’ignoranza deliberata evitano completamente la ricerca di qualunque tipo di informazione.

Un altro aspetto di questa tipologia di ignoranza volontaria riguarda la sua differenza con l’agnotologia, ovvero la mancanza di conoscenza indotta nell’utente dall’abilità di chi mette in circolazione notizie o dati falsi, come nel caso delle fake news [10]. Anche in questo caso, in maniera simile a quanto avviene con il bias di conferma, si tratta di un atteggiamento certamente anti-epistemico, ma che nasce da cause esterne (come, ad esempio, la volontà di alcuni politici o di gruppi di pressione, come – banalmente – le lobby del tabacco o quelle delle armi). L’ignoranza deliberata si concentra invece sul piano individuale, presupponendo una scelta consapevole presa al netto delle pressioni o condizioni esterne.

Le ragioni della deliberata ignoranza

Ma per quale motivo – quindi – dovremmo decidere attivamente di non voler conoscere la risposta a domande di interesse personale, a maggior ragione se tale risposta è gratuita e ci viene fornita senza alcuna fatica? Gigerenzer e Garcia-Retamero propongono quattro motivazioni:

1. Evitare le reazioni emotive negative che potrebbero derivarne: pensiamo a James Watson, a cui dobbiamo la scoperta del DNA (NdA: al netto delle sue posizioni sull’eugenetica e le controversie su razza ed intelligenza, ovviamente prendiamo la vicenda dell’autore solo come esempio calzante). Watson – coinvolto in prima persona nella raccolta di dati genomici durante i suoi studi sul sequenziamento del genoma umano – richiese che le proprie informazioni genetiche relative al gene ApoE gli venissero nascoste – in quanto era stata dimostrata un’associazione tra tale gene e il morbo di Alzheimer ad insorgenza tardiva (LOAD), tutt’ora incurabile e che costò la vita ad una delle sue nonne. Eventualità che Watson non era disposto ad affrontare. (Per maggiori informazioni, ApoE Genotipo, Malattia di Alzheimer | Lab Tests Online-IT).

2. Mantenere un effetto sorpresa e di suspense: semplicemente, pensiamo a quelle coppie in attesa di unǝ bambinǝ e che decidono di non scoprire in anticipo il sesso di nascita dellǝ nasciturǝ;

3. Per guadagnare vantaggio strategico: potrebbe sembrare contro intuitivo, eppure secondo alcuni [11] potrebbero esserci dei vantaggi strategici derivanti della cecità intenzionale in vari ambiti – come in quello bancario, dove, secondo Margaret Heffernan la cecità intenzionale aiuta banchieri e policy-maker a sottovalutare e trascurare i rischi e a sviare le potenziali critiche future, come avvenuto dopo la crisi del 2008.

In economia comportamentale, è stata la teoria dei giochi, primo fra tuttǝ Schelling, nel suo saggio “An Essay on Bargaining” del 1956 [12] –  a mettere in discussione la tanto decantata egemonia strategica di chi possiede l’informazione in uno scenario di contrattazione. Non è da sottovalutare, inoltre, che in questi contesti la deliberata ignoranza permette più facilmente di spazzare via la responsabilità di quanto accade [13]. Gigerenzer e Garcia-Retamero [6] riportano come esempio una (meno cruenta) versione del Chicken Game – dove ci sono persone che camminano l’unǝ verso l’altrǝ. Unǝ delle due persone è disattentǝ e sta guardando il cellulare: non controllando la strada davanti a sé, sta scegliendo deliberatamente di ignorare l’informazione che potrebbe ottenere facilmente, ovvero “c’è qualcunǝ con cui potrei scontrarmi davanti a me?”.

Tuttavia, sarà il pedone più attento ad evitare la collisione – situazione della quale, in ogni caso, beneficerà senza alcun sforzo anche il pedone disattento. Ci sono altri casi – tangenzialmente legati a fenomeni come l’effetto Dunning-Kruger [14] – in cui non essere a conoscenza dei propri limiti potrebbe aumentare motivazione e fiducia in se stessǝ al punto da migliorare le proprie performance. Per un maggior approfondimento, si rimanda a Hertwit e Engel [13] – che dedicano un intero lavoro all’ignoranza come espediente strategico, nello specifico si veda il paragrafo “Deliberate ignorance as a performance-enhancing device“. In particolare, si osserva che una previsione che evidenzierebbe una grande discrepanza tra le prestazioni auspicate e quelle potenziali potrebbe generare uno stato di arousal tale da compromettere la prestazione effettiva [15, 16]. In maniera completamente speculativa, infine, gli autori chiamano nuovamente in causa Daniel Kahneman, osservando che la tendenza ad adottare una visione interna quando si prevede intuitivamente il futuro ci porterebbe a guardare i dettagli unici di un piano o di un progetto, piuttosto che concentrarci sulle statistiche oggettive di una classe di eventi simili passati. Questo bias, porta a previsioni certamente più ottimistiche ma potrebbe essere determinante nel decidere o meno di intraprendere un progetto ambizioso [17]

È possibile che nessun libro di testo venga mai scritto, nessuna casa costruita e nessuna opera composta se le persone basassero la loro decisione sul progresso e sul successo di sforzi simili.

Hertwig, R., & Engel, C. (2016).

4. La deliberata ignoranza viene usata per garantire imparzialità (sarà un caso che la giustizia è spesso raffigurata con una benda sugli occhi?). Si pensi ai colloqui dove alcune informazioni demografiche dellǝ candidatǝ non vengono riportate per evitare bias di sorta – nonché alle audizioni alla cieca.  Nel 1952 la Boston Symphony Orchestra decise di selezionare lǝ musicistǝ facendolǝ esibire dietro un telo.

Vienna Philharmonic publishes pictures from its recent auditions | News |  The Strad
Un’audizione cieca per l’Orchestra Filarmonica di Vienna. Foto di Jun Keller.

Adottando questa tecnica (dal 1980 in poi lo fecero anche altre le altre 4 principali orchestre statunitensi, ovvero la Chicago Symphony Orchestra, la Cleveland Symphony Orchestra, la New Philharmonic e la Philadelphia Orchestra) a fine anni Novanta si passò da un 12% ad un 20-30% di donne in più nell’organico.

Deliberata ignoranza: il possibile ruolo del rimpianto.

Concentriamoci ora solo sui primi due motivi – ovvero quelli legati ad emozioni positive o negative. Ed è qui che entrano in gioco delle emozioni negative, tra cui il rimpianto e rimorso.
Il rimpianto, nello specifico, è un’emozione negativa che proviamo dopo aver selezionato la scelta A (es. non aver stipulato una polizza su quel viaggio prenotato per Pasqua 2020…) ed aver scoperto che la scelta B sarebbe stata più vantaggiosa (stipulare un’assicurazione viaggio).

Il rimpianto può essere anche anticipato, ovvero avvenire addirittura prima che la scelta sia stata fatta. L’anticipazione del rimpianto che potremo provare una volta fatta una scelta, infatti, influenza la scelta stessa.

A questo punto, insieme alle due condizioni specificate sopra, per cui si parla di ignoranza deliberata se, e solo se:

Condizione 1. Si opta per l’ignoranza anche se l’accesso all’informazione non ha alcun costo;
Condizione 2. Si opta per l’ignoranza a discapito del proprio interesse personale.

dobbiamo aggiungere due condizioni legate alla possibilità di provare rimpianto:

Condizione 3. La possibilità di ottenere un feedback che ci informa del risultato dell’opzione non scelta;

L’esistenza di un feedback è fondamentale – quindi – per la possibilità di provare rimpianto. Si pensi ai classici esperimenti in cui bisogna scegliere tra una vincita certa di 50 euro e una vincita di 100 euro – con il 50% probabilità. Moltǝ partecipanti avversǝ al rischio sceglierebbero la vincita certa di 50 euro. Tuttavia, questa preferenza è completamente coerente con il rimpianto ancipatorio: scegliamo l’opzione certa per evitare la possibilità di dover aver a che fare – in futuro – con lo scenario in cui non abbiamo vinto nulla a causa della nostra avidità. (Per una riesamina su come si va a scorporare l’avversione al rischio dall’avversione al rimpianto, si rimanda agli studi comportamentali di Zeelenberg 1999 e Zeelenber e colleghǝ 1996, nonché a più recenti studi di Neuroimaging di Coricelli e colleghǝ, 2005) [1820].

Entra quindi in gioco un quinto scenario:

5. La possibilità che conoscere il risultato dell’opzione non scelta potrà essere per noi tanto favorevole quanto svantaggiosa.

Quest’ultima condizione, definita da Gigerenzer e Garcia-Retamero [6] come “Approach-avoidance conflict” avviene quando il raggiungimento di un obiettivo può avere risultati più o meno auspicabili. Si tratta di un conflitto cruciale – che le teorie classiche della ricerca razionale di informazioni risolvono parzialmente, come detto poco fa, individuando un trade-off tra i benefici di ottenere maggiori informazioni e i costi di impegnarsi nella loro ricerca. In queste teorie, però, la conoscenza viene sempre  considerata vantaggiosa e, al contempo, la sua ricerca ha sempre un costo. Al contrario, la teoria dell’ignoranza dettata dall’anticipazione del rimorso nasce proprio laddove c’è la possibilità che la conoscenza possa avere conseguenze negative – al netto dei costi di ricerca (che possono, ricordiamolo, anche non esserci).

Per questo motivo, laddove le teorie classiche assumono che l’utilità attesa di un’opzione dipenda solamente dai risultati positivi o negativi di questa opzione moltiplicati per le loro probabilità, qui presupponiamo che la scelta dipenda anche dal rimpianto anticipato evocato dal conoscere l’opzione alternativa a cui andremo a rinunciare [i.a. 21,22]

Ma arriviamo alla parte sperimentale.

Gigerenzer e collega (idem) hanno indagato questo fenomeno tramite due esperimenti, in Germania e Spagna, su due popolazioni composte da circa 900 rispondenti.

Nel primo esperimento, sono state innanzitutto poste quattro domande con outcome positivo e quattro domande con outcome negativo – per verificare se ci fossero differenze relative alla valenza della domanda.

Alcuni esempi di eventi con un outcome puramente negativo sono:

– “Vorresti sapere oggi quando morirà il tuo partner?” A cui ha risposto no l’89%

– “Vorresti sapere oggi quando morirai?” No: 87%

– “Pensa di esserti appena sposato. Vorresti conoscere oggi il motivo per cui il tuo matrimonio fallirà?” No: 86%

Alcuni eventi positivi, invece sono:
– “Vorresti sapere se c’è vita dopo la morte?” No: 56%

Supponiamo che, con il tuo partner, aspettiate un bambino. Il sesso del bambino può essere determinato in modo affidabile con un’ecografia. Vorresti sapere il sesso del tuo bambino prima della nascita?” No: 40,3%.

Gigerenzer e collega hanno quindi notato che c’è una “diffusa ignoranza deliberata” tanto per gli eventi negativi che per quelli positivi, sebbene questo non sia coerente con il desiderio umano di evitare o ridurre l’incertezza, l’ambiguità o il bisogno di chiusura cognitiva [23, 24].

È altrettanto difficile riconciliare quanto appena detto con la più classica teoria della scelta razionale. Prendiamo solo gli eventi negativi: è evidente che acquisendo quell’informazione si otterrebbe certamente un buon vantaggio, in termini di lungimiranza e di capacità di massimizzare il proprio benessere (si veda Becker [25] – sulla lungimiranza dei “forward-looking agents”).

(NdA: Scusate per la crudezza delle prossime frasi, il merito va tutta al premio Nobel appena citato!)

Al netto dei motivi, che si tratti di egoismo, altruismo o persino puro masochismo – conoscere in anticipo la data o la causa di morte dellǝ propriǝ partner potrebbe permetterci di massimizzare il benessere in un’ampia varietà di modi – dal pianificare meglio i propri risparmi e la propria pensione, fino all’allocazione del tempo da trascorrere insieme, ad esempio, negli ultimi momenti della sua vita. Discorsi simili possono farsi rispetto alla domanda “Vorresti sapere se e quando divorzierai?” (a riguardo, si consiglia la lettura del nostro sulla Fallacia dei Costi Sommersi).

Insomma, sarebbe più razionale voler sapere – in particolare se non ci costa nulla. Eppure, l’evidenza sperimentale mostra proprio il contrario: l’ignoranza non è l’eccezione bensì la regola. Al contempo, potremmo dire che se fossimo lungimiranti, vorremmo sapere almeno di più riguardo agli eventi con potenziali outcome positivi. Sapere il genere dellǝ propriǝ nasciturǝ – sempre secondo Becker – ci permetterebbe di ridurre l’incertezza e pianificare in anticipo. Quest’essere lungimirante di Becker, che sembra comportarsi proprio come il nostro homo economicus, a quanto pare, non lascia spazio alla sorpresa, alla suspance, né tantomeno al rimpianto anticipato, che invece sembrano giocare un grandissimo ruolo nella decisione di volere sapere o meno delle informazioni riguardo degli eventi così significativi della nostra vita.

Gigerenzer e collega, inoltre, sottolineano che più ci si avvicina all’età in cui è maggiore la probabilità che un evento negativo si verifichi (per esempio, un divorzio, la morte di unǝ partner, problemi di salute in età avanzata), più si è propensǝ a scegliere di non sapere. Questo dato sembrerebbe quindi in contraddizione sia con l’assunto che le informazioni su fatti imminenti siano più importanti, sia con i risultati che dimostrano che le persone giovani siano più disinteressatǝ al futuro e quindi orientate a vivere nel presente, applicando quindi un tasso di sconto maggiore alle informazioni più lontane nel tempo (per un chiarimento sul concetto di tasso di sconto temporale, si rimanda ad approfondimenti sul concetto di temporal discounting). Se fosse questo il caso, infatti, la propensione a scegliere di non sapere, dovrebbe aumentare – e non diminuire con l’avanzare dell’età. Ma accade proprio il contrario. Adottando la prospettiva introdotta dall’ipotesi del rimpianto anticipato questo comportamento assume un altro senso: una giovane persona, diciamo unǝ ventenne, deciderà più facilmente di voler sapere se morirà a 60 anni e non a 70, e non sarà devastatǝ da tale notizia quanto lo sarebbe unǝ cinquantacinquenne.

Un altro interessante risultato, soprattutto in ottica di politiche pubbliche, ci arriva dal dato che vede l’ignorante volontariǝ più propensǝ a sottoscrivere delle assicurazioni (una misura reale di propensione al rischio) – qualora ovviamente esse non siano già obbligatorie – a conferma del peso giocato dal rimpianto anticipato.

E il comportamento?

Dallo studio appena illustrato sembrerebbe proprio che una percentuale elevatissima di persone non vogliono sapere. Ma questo è quello che affermano. È anche quello che farebbero? Una possibile critica a questo filone di ricerca è certamente legata al fatto che, in alcuni scenari, le persone sanno che la loro preferenza è completamente ipotetica – non essendoci ancora la possibilità di prevedere il genere di informazioni che sono state presentate durante l’esperimento. Alcune risposte cambierebbero se sapessimo dell’esistenza di una tecnologia che calcola la nostra data di morte? Non possiamo saperlo, ma possiamo confrontare le risposte alla domanda relativa al genere dellǝ propriǝ figliǝ – per cui la tecnologia è ovviamente disponibile e affidabile. Studi precedenti [26] hanno riportato che un buon 31% delle future mamme intervistate decidono realmente di non voler sapere il sesso dellǝ nasciturǝ (in linea con le percentuali riportate negli studi di Gigerenzer e Garcia-Retamero [6] – dove questa scelta era solo frutto di uno scenario ipotetico e non la realtà.

Una delle principali motivazioni riportate da coloro che decidono di non volerlo scoprire prima della nascita è proprio “per avere la sorpresa al momento del parto”. Tuttavia, con questa serie di studi e le successive evidenze limitate al caso specifico della volontà di sapere il genere dellə nasciturə, è impossibile generalizzare ed affermare che l’ignoranza deliberata riportata possa effettivamente tradursi in comportamento.

Il desiderio di sapere – per millenni – sembrava insito nella natura umana. Ci si aspetta che le persone, mosse da una fantomatica razionalità – decidano di fare screening preventivi, test genetici e monitorare la propria salute, qualora venga data loro la possibilità di farlo (per di più, gratuitamente).

Per decenni, nel corso del XX secolo – la filosofia, la sociologia nonché psicologia e l’economia, si sono occupati di elaborare modelli di presa di decisione che dessero per scontato che “più informazione è meglio” – se questa informazione è genuina e il suo costo non eccede il beneficio che può addurre [9] e che la nuova conoscenza debba necessariamente venire acquisita ed usata per aggiornare le distribuzioni di probabilità a priori utilizzate per prendere decisioni razionali [27].

Il desiderio di non sapere, invece, ci sembra ancora contro intuitivo e irrazionale – sebbene sia chiaro che nella vita di tutti i giorni è uno scenario che probabilmente reiteriamo anche noi quotidianamente.

La realtà è che noi, al contrario di Cassandra – abbiamo un potere ancora più grande: possiamo scegliere di non sapere, di rimanere sorpresi e persino di lenire la paura del rimorso e il peso della sofferenza.

Bibliografia

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L’Autrice

Serena Iacobucci è dottoressa di Ricerca in Business & Behavioural Sciences ed attualmente Editorial Outreach Specialist per Frontiers, casa editrice svizzera di riviste scientifiche open-access. Ex ricercatrice post-doc e cultrice della materia in Economia e Finanza Comportamentale, si è occupata di consulenza e ricerca in Linguistica e Comunicazione Digitale ed è Content & Digital Strategist per lo spin-off Umana-Analytics. Serena è la Co-Editor in Chief e responsabile della comunicazione di EconomiaComportamentale.it, editor associata e responsabile della comunicazione digitale di InMind Italia – una rivista trimestrale dedicata alla psicologia sociale – e Social Media Officer dell’Associazione Internazionale per la ricerca in Psicologia Economica (IAREP – International Association for Research in Economic Psychology).


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