Quotidianità sospesa: lo shock e l’incertezza causati dalla pandemiaTempo di lettura stimato: 11 min

di Silvia Bianco

Le milizie Lendu dell’Ituri, una regione della Repubblica Democratica del Congo, sono soliti praticare dei riti in occasione di importanti combattimenti. Essi partecipano a dei culti di possessione in cui colui che ha il ruolo di officiare il rito, il medium, è ritenuto capace di poteri divinatori, per mezzo dei quali, permette la connessione dei miliziani con i loro antenati. Durante questi culti, chiamati godza, lo spirito dell’antenato viene interpellato per predire la possibilità di sopravvivenza del miliziano. Si ritiene, inoltre, che gli spiriti convocati prenderanno parte agli scontri a fianco dei miliziani (Jourdan, 2010).

Se pensate che i riti siano solo materia di spiriti e stregoni, siete in errore!

Partiamo subito da una definizione: il rito può essere definito come una pratica sociale ripetitiva articolato da una sequenza di attività simboliche (una danza, un canto, una parola, un gesto, e più spesso un insieme di tutte queste cose) che seguono uno schema definito a livello culturale da uno specifico insieme di idee.

Il corso dell’ esistenza, anche la nostra, quella di cittadini cosmopoliti e super-digitalizzati, è costellata di riti, perché il rito, antropologicamente parlando, è un fenomeno umano universale. E saranno molti i riti che ci accompagneranno nelle fasi più importanti della nostra vita: dal battesimo, al matrimonio, alla cerimonia funebre, così come molti altri, ci faranno compagnia in modo più discreto: è il caso di una festa di compleanno, di una messa o di una cerimonia di laurea.

In questo periodo dell’anno, con l’approssimarsi delle festività natalizie, siamo spesso coinvolti nel rito dello scambio dei regali. Lo scambio dei doni è un fenomeno molto complesso che suscita attenzione e interesse da parte degli antropologi. Basti pensare che uno dei primi studi “Il saggio sul dono” di Marcel Mauss fece la sua comparsa quasi cento anni fa, nel 1924.

Secondo lo studioso James Carrier, autore del libro “Il rituale dello scambio natalizio”, il dono ha uno status diverso rispetto all’oggetto di consumo. Ciò accade perché quando scegliamo un regalo siamo alla ricerca non di un semplice oggetto, ma del regalo giusto, adatto per l’altra persona. Il dono, secondo Carrier, nega all’oggetto la sua precedente esistenza come bene di consumo (Carrier, 1993) e rappresenta la natura a lungo termine della relazione tra noi e gli altri ed è per questo che, spesso, vediamo i regali come un obbligo legato al soddisfacimento delle aspettative degli altri, più che una scelta puramente volontaria (Miller, 2017).

Ma perché abbiamo bisogno di un rito?

La spiegazione può essere ritrovata nel fatto che questi fanno parte di una certa costruzione del mondo e di una certa sua comprensione. Stabiliscono un ordine e affermano una stabilità individuale e collettiva. Il rito marca, guida, caratterizza il passaggio da uno stato all’altro della nostra esistenza ed è lo strumento che l’essere umano adopera per simboleggiare il momento in cui l’individuo esce da una condizione sociale per entrare in una nuova.

Ma non è tutto, il rito, per dirla nei termini di Arnold Van Gennep, ovvero colui che studiò la struttura dei riti di passaggio, deve essere considerato come “l’artificio sociale” attraverso il quale gli esseri umani rendono comprensibile a se stessi la “transitabilità” da uno stato all’altro in cui loro stessi classificano e ripartiscono il mondo sociale (Van Gennep, 1981).


Fonte: Fondazione Veronesi

Nella storia dei Lendu, brevemente accennata semplificando un fenomeno estremamente complesso della storia della Repubblica Democratica del Congo, c’è un altro aspetto importante da sottolineare: il concetto di habitus. Secondo Pierre Bourdieu, l’habitus potrebbe essere definito come un “sistema di predisposizioni durature predisposte a funzionare come struttura strutturante”. Tale sistema concerne l’esistenza di pratiche sociali strutturate e condivise che intervengono sul modo in cui ciascuno di noi “è” nel mondo (Bourdieu, 2003).

Per tornare all’esempio iniziale, nel corso della turbolenta storia del Congo, si è realizzato un processo sociale e culturale in cui la violenza e la coercizione sono legittimate a tal punto da diventare un vero e proprio habitus (Jourdan, 2010). È un esempio forte. Indispensabile per comprendere come la nostra organizzazione del mondo, le nostre vite, le nostre relazioni, il modo in cui ci associamo o ci dividiamo, siano permeati di tutti questi elementi, intrecciati e avviluppati in modo molto articolato e complesso.

I riti più significativi

Non è facile distinguere dove inizia e finisce un rito e dove, invece, si collocano i confini dell’habitus. Nella vita quotidiana, tutto si fonde e confonde su uno stesso continuum dell’esperienza. Prima di arrivare alla pandemia di Covid-19, che ha messo a dura prova la solidità dei nostri riti e del nostro habitus, vorrei inserire un altro racconto di alterità. Forse uno dei riti più significativi per l’essere umano è quello di elaborare la morte.

Sono tantissimi i modi in cui diverse società e culture hanno elaborato il rapporto tra i vivi e i morti, tra l’aldiquà e l’aldilà, la vita terrena e la vita ultraterrena.

Presso gli Haya che vivono nella regione Kagera della Tanzania, esiste un complesso sistema associato alla morte. Durante i riti funebri, il sudario in cui è avvolto il defunto è condiviso con i parenti, i quali, indossano strisce di stoffa tagliate dal sudario del defunto stesso. In questo modo, se da un lato è evidente, e voluta, una connessione tra i vivi e i morti nell’atto di ricordare il defunto vestendo i suoi stessi abiti, dall’altro si evince la volontà di decomporne l’identità “passandola” ai parenti.

Il rituale funebre Haya, prevede anche un altro elemento particolare ed affascinante. La brace del focolare del defunto è trasportata al di là del villaggio e disposta per la strada, in particolare, in corrispondenza degli incroci. Gli Haya, infatti, pensano che lasciando la morte ad un incrocio, essa si separi definitivamente da coloro che la piangono nel momento in cui è trasmessa a coloro che transitano per quelle zone di passaggio. Questo significa che la morte può essere dimenticata, o elaborata, proprio perché verrà ripresa da altri (Ciabarri, 2009). E il ciclo ricomincia.

Covid-19 e sospensione dei riti

La pandemia di Covid-19 e il lockdown a cui siamo stati costretti per ragioni di salute pubblica, non solo hanno interrotto un certo modo in cui eravamo soliti svolgere le nostre attività quotidiane costringendoci all’isolamento, ma ha realizzato una sospensione improvvisa e traumatica. Ci siamo letteralmente risvegliati in una realtà in cui non potevamo più stringerci la mano, andare a mensa con i colleghi, celebrare un matrimonio, festeggiare una laurea, l’aperitivo serale, dare l’ultimo saluto ad un proprio caro. L’angoscia provata è una conseguenza inevitabile dovuta alla sospensione del nostro habitus e dei nostri riti ed è probabile che ci saranno delle conseguenze di lungo periodo che dovranno essere analizzate in modo approfondito.

L’antropologia medica, in questo senso, ha già affrontato temi legati alle epidemie come nel caso di Zika o di Ebola (Abramowitz, Rodriguez, Arendt 2014; Abramowitz, 2014; Kutalek et al., 2015) maturando una conoscenza utile su quali fattori economici, politici e sociali abbiano giocato un ruolo centrale nel modo in cui questo tipo di crisi viene affrontato. La stessa conoscenza è stata chiamata in causa per interpretare cosa sta rappresentando, oggi, la pandemia di Covid-19. In particolare, si sta cercando di capire come le varie nazioni, a nord e a sud del mondo, stanno intervenendo e perché si sta intervenendo in un certo modo. Una delle caratteristiche più ostiche della pandemia di Covid-19 è che, al contrario di altre epidemie come Ebola o Zika (rimaste confinate ad uno specifico territorio), si presenta come una crisi globale e, quindi, lo sforzo per capire come stiamo rispondendo a questo evento dovrà essere enorme, poiché, di portata planetaria (MacGregor, 2020).

In un’altra direzione si muove il tentativo di alcuni antropologi di fare in modo che questa sospensione improvvisa dovuta al lockdown e al cambiamento forzato nel modo di relazionarsi con gli altri e con il mondo (oltre che nel mondo), si traduca in un’occasione di riflessione sul rapporto dell’uomo con il proprio ambiente sociale, economico ed ecologico.

La “megacultura” e la mancanza di sospensione

La nostra cultura, a causa della sua estensione e della sua complessità, può essere propriamente considerata una megacultura accecata dalla brama dell’infinito e del progresso senza sosta. In questo senso, la megacultura, a differenza di quanto avviene nelle cosiddette società tradizionali, non crea e non prevede dei momenti istituzionalizzati di sospensione in cui la stessa cultura è oggetto di riflessione e critica, come se la si stesse osservando dall’esterno. È per questo che dovremmo sforzarci di considerare questo momento come un’opportunità per riflettere su noi stessi, sul nostro ruolo e sul nostro posto nel mondo, piuttosto che affrettarci a far tornare tutto come prima (Aime, Favole & Remotti, 2020).

La risposta al trauma del lockdown è stata comunque immediata anche se problematica e talvolta confusa, come nelle scene di panico delle lunghissime file davanti ai supermercati nel cuore della notte. La flessibilità dell’essere umano di ripensare il proprio mondo e il proprio posto nel mondo, ha permesso di far fronte alla sospensione di alcune importanti certezze della vita quotidiana.

Questo significa che si sono comunque cercate delle soluzioni alternative, in modo resiliente. Con ciò si intende che non si è semplicemente constato che ci si può salutare con il gomito al posto della stretta di mano, significa aver compreso che la stretta di mano è un gesto che può essere sostituito con qualcos’altro che abbia la stessa finalità, come ad esempio costruire un legame di fiducia con l’altra persona.

In questo modo, la sospensione di qualcosa, in taluni casi è stata accompagnata dalla nascita di nuove pratiche, come quelle legate all’importanza delle nuove norme igieniche, il lavaggio frequente delle mani e l’indossare la mascherina.

Ma non solo, abbiamo fatto nostri altri riti come cantare in sincrono dai balconi per sostenerci a vicenda, organizzarci per accendere, alla stessa ora, delle candele per ricordare le vittime del virus, organizzare feste, riunioni di condominio e altri momenti di incontro su Zoom o altre piattaforme di comunicazioni a distanza (Guigoni & Ferrai, 2020; Aime, Favole & Remotti, 2020).

In conclusione

Non è sempre facile, spesso non è immediato, a volte, forse non è nemmeno possibile. È il caso dei riti e delle pratiche più complesse, dove il supporto del gruppo e della comunità è fondamentale per dare un senso all’evento.

La pandemia continuerà ad avere un forte impatto nella vita di molti di noi, stretti nella e costretti alla rigidità di misure anticontagio che non ci appartengono. Tuttavia, riconoscere il carattere e la portata della resilienza e puntare sulle capacità di adattamento individuali sono alcune possibilità di cui disponiamo per far fronte alla crisi e alla perdita, momentanea, dei nostri punti di riferimento individuai e collettivi (Zhai & Du, 2020) con l’auspicio, questa volta, di riflettere sulle responsabilità che dobbiamo assumerci ponendo al centro della riflessione il futuro delle nuove generazioni.

Bibliografia

  1. Abramowitz, S., Ten things that anthropologists can do to fight the West African Ebola epidemic, Somatosphere, 2014
  2. Aime, M., Favole, A., Remotti, F., Il mondo che avrete, Dialoghi sull’uomo, Utet, Torino 2020
  3. Abramovitz, S., Rodriguez, O., Arendt, G., The effectiveness of U.S. military intervention on Ebola depends on the government’s will and vision to direct vast military resources towards a public health response, LSE American Politics and Policy, 2014
  4. Bordieu, P., Per una teoria della pratica, Cortina, Milano, 2003, (ed.or. 1972)
  5. Carrier, J., The Rituals of Christmas Giving, in Miller D., Unwrapping Christmas, Oxford University Press, Oxford, pagg. 55- 74, 1993
  6. Ciabarri, L., Cultura materiale. Oggetti, immaginari, desideri in viaggio tra mondi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014
  7. Guigoni, A., Ferrari, R., Pandemia 2020. La vita quotidiana in Italia con il Covid-19, M&J Publishing House, Danyang, 2020
  8. Jourdan, L., Generazione kalashnikov. Un antropologo dentro la guerra in Congo, Laterza, Bologna, 2010
  9. Kutalek, R. S., Wang, M.Fallah, C. S.Wesseh, and J.Gilbert , Ebola interventions: Listen to communities, The Lancet Global Health, 2015
  10. MacGregor, H., Novelty and uncertainty: social science contributions to a response to COVID-19, Science, Medicine and Anthropology, Somatosphere, 2020
  11. Miller, D., Christmas. An anthropological lens, Hau: Journal of Ethnographic Theory 7, Vol. 3, pagg., 409-442, 201
  12. Van Gennep, A., I riti di passaggio, Boringhieri, Torino, 1981 (ed. or. 1909)
  13. Zhai, Y., Du, X., Loss and grief amidst COVID-19: A path to adaptation and resilienceBrain, Behavior, and Immunity, 87, 2020

L’autore

Silvia Bianco è laureata in Antropologia culturale ed Etnologia presso l’Università degli studi di Bologna. Ha conseguito, presso l’Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. d’Annunzio”, il PhD in Business & Behavioral Sciences seguendo un percorso aziendale durante il quale ha rivolto l’attenzione sulla metodologia di Design Thinking applicato allo User Centered Design.

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