Come sfruttare i bias cognitivi per costruire nuovi modi di fare impresaTempo di lettura stimato: 12 min

di Giacomo Brunaccini

Ad osservare i numeri di alcune ricerche internazionali sul livello di soddisfazione espresso dai dipendenti nei confronti dei loro capi, sembrerebbe emergere un quadro piuttosto compromesso. Secondo il rapporto di ADPThe People Unboxed”, un terzo dei dipendenti dei paesi dell’UE si dichiara non soddisfatto dei propri capi. Oltreoceano le cose non sembrano andare meglio: secondo un noto report di Gallup “State of the american manager”, un americano su due avrebbe lasciato il proprio lavoro a causa di un “bad manager” (Ferrara, 2020).

Dati certamente interessanti che andrebbero approfonditi per comprendere quanto sia effettivamente realistica una qualità manageriale così discutibile a livello planetario o, viceversa, in che misura tali dichiarazioni siano mosse da una generica intolleranza degli intervistati verso il concetto di subordinazione in sé per sé. È del resto pacifico che, nell’uomo, vi sia una naturale tendenza ad instaurare dinamiche di conflitto in presenza di condizioni di subordine che, citando Hegel, si manifestano peraltro in entrambe le direzioni.

La locuzione “subordinazione e supremazia” è, non a caso, la più frequente nei dizionari di lingua italiana, quando si tratta di definire il termine “gerarchia”. Espressione particolarmente evocativa della natura asimmetrica delle relazioni che la compongono e della conseguente, possibile, conflittualità intrinseca.

Ciò nonostante, scorrendo millenni di storia, ogni qualvolta l’uomo si è trovato di fronte al compito di dover organizzare sistemi complessi di qualsiasi natura, ha quasi sempre scelto la via “gerarchica”. Una sorta di contraddizione fra le manifestazioni di insofferenza verso tali sistemi ed una scelta che, alla fine, è sembrata sinora essere la migliore, anche con una certa persistenza.

ORIGINE DELL’IMPRESA GERARCHICA: LA RISPOSTA A PROBLEMI COMPLESSI IN UN CLIMA DI RAZIONALITA’ ASSOLUTA

In effetti, da migliaia di anni, si riscontrano sistemi verticali in tutti gli aspetti della vita dell’uomo: nelle organizzazioni sociali, si pensi ad esempio alla struttura in caste dell’Antico Egitto, nei contesti militari, di cui un celebre esempio è la complessa gerarchia dell’esercito romano in Età Repubblicana, strutturata in funzioni, ruoli, persino carriere e, naturalmente, l’organizzazione d’impresa.

Divisione del lavoro e subordinazione si ritrovano già in Età Antica: le grandi opere di utilità comune (idrauliche, edilizie o navali) richiedevano il coordinamento di numerosi lavoratori in “condizioni di stretta subordinazione gerarchica” (Salvati, 1993). Analogamente, in epoca Medievale, il mercante assumeva un ruolo di organizzatore della produzione, coordinando porzioni di lavoro affidate ad artigiani specializzati ed esercitando “non di rado, un controllo tecnico dell’attività del lavoratore” (Cipolla, 1974).

industria diciottesimo secolo

È tuttavia nel XVIII secolo, con l’avvento della prima Rivoluzione Industriale, che i sistemi gerarchici si diffusero a macchia d’olio.

La meccanizzazione delle attività produttive fece emergere nuove complessità d’impresa: i nuovi processi di trasformazione e l’incremento esponenziale dei volumi della produzione (in Inghilterra la sola manifattura del cotone crebbe, in appena 50 anni, di oltre il 1500% [Rifkin, 2014]) richiedevano a gran voce pianificazione, orchestrazione, disciplina.

La struttura d’impresa divenne rapidamente una questione centrale, che trovò presto conforto nel razionalismo assoluto dell’economia classica e nella conseguente visione meccanicistica della realtà, in una sorta di osmosi e di automazione industriale delle idee. Le visioni weberiane, tayloriste e poi fordiane, svilupparono un concetto di impresa rigida, meccanica, burocratica, fatta di geometrie apparentemente perfette che definiscono in maniera scientifica ruoli, autorità, tempi e regole.

E l’uomo? Secondo tali teorie è un essere perfettamente razionale, in grado di conoscere tutte le conseguenze derivanti dai suoi comportamenti, di poter esprimere un ordinamento logico nelle preferenze e di poter decidere sempre sulla base di calcoli logico-razionali. Un approccio mutuato dalla matematica, che prescinde, evidentemente, dai processi cognitivi e dalle attitudini mentali dei singoli (Egidi, 2005).

UNO SCHEMA RAZIONALE DISEGNATO PER GESTIRE ESSERI UMANI, EMOTIVI E, TALVOLTA, IRRAZIONALI

Un importante contributo all’elaborazione di una visione alternativa alla razionalità assoluta è segnato dagli studi del premio Nobel per l’Economia H. Simon. Seguendo la sua intuizione, per l’uomo non è così semplice ed automatico prendere decisioni razionali a causa dei limiti insiti nella sua stessa natura: le informazioni non sono sempre disponibili (spesso insufficienti, inattendibili o eccessive), le capacità individuali di elaborarle possono essere limitate o influenzate da numerosi fattori e, infine, gli stessi problemi possono essere non semplici da risolvere.

A rendere ulteriormente più fragile il paradigma della razionalità illimitata, concorrono le evidenze scientifiche di un altro Premio Nobel per l’Economia, Daniel Kahneman, che dimostrano come gli individui si comportino, in alcune occasioni, in maniera esattamente contraria a ciò che potrebbe considerarsi una “decisione razionale”.

Ciò avviene poiché il sistema cognitivo dell’uomo, disponendo di risorse limitate, necessita di “scorciatoie mentali” (euristiche) per rendere più semplice il processo decisionale e non è del tutto scontato che il risultato di questo processo cognitivo dia necessariamente un risultato corretto.

uomo che riflette

Infine, a rendere il contesto comportamentale ancora più complesso e meno razionale, intervengono i bias cognitivi, vere e proprie deviazioni della nostra mente dal ragionamento logico.

Appaiono così in contraddizione l’idea di impresa rigida, razionale ed iper-normativa ed il fatto che la stessa sia composta da soggetti che talvolta decidono in maniera irrazionale, per via di pregiudizi, condizionamenti e limiti cognitivi. Più in generale è lecito domandarsi, aldilà di tale incoerenza di fondo, se e quanto, la stessa natura gerarchica possa generare un contesto che accresca il numero e l’intensità delle distorsioni comportamentali.

Un primo elemento che suscita particolare attenzione è che, fra le deviazioni comportamentali maggiormente studiate e frequenti nel Management di impresa, vi sia l’illusione del controllo, individuata per la prima volta da Ellen Langer nel 1975.

Il bias in questione fa riferimento alla tendenza, molto comune a livello manageriale, a sopravvalutare la propria capacità di controllo sugli eventi, trascurando il fatto che molto spesso l’esito degli stessi non è determinato esclusivamente dalle singole capacità personali, bensì è la risultante di numerosi altri fattori, alcuni dei quali non è detto si conosca l’esistenza. Sovrastimando le proprie capacità di controllo, il rischio che sovente si corre è di valutare gli eventi con eccessivo ottimismo, di sottostimarne i rischi o di ignorare del tutto le alternative alle proprie convinzioni di fondo, con il risultato di perdere opportunità potenziali o di scegliere una strada sbagliata.

Per tali motivi è possibile credere in una “correlazione spontanea tra l’impegno profuso in un determinato compito ed i risultati attesi, confidando nella possibilità che possa bastare un impegno maggiore per risolvere gli eventuali problemi che potrebbero sorgere.” (Mariani, 2009). In altri termini, la diffusa illusione di poter indirizzare soluzioni attraverso il semplice incremento delle ore lavorate.

Altro bias particolarmente interessante ed osservato di frequente è comunemente detto Zero Risk Bias, ovvero “la tendenza ad evitare ogni forma di rischio e a preferire un’opzione che potrebbe eliminare ogni minaccia a scapito dell’utilità attesa delle altre opzioni.” (Ceschi Et Al., 2012).

Le evidenze empiriche di Tversky e Kahneman, emerse negli studi sulla Teoria del Prospetto, hanno infatti evidenziato che la maggior parte degli individui non si comportano in maniera razionale di fronte alla probabilità di “vincita” o di “perdita”. Piuttosto mostrano sensibilità asimmetriche, in quanto attribuiscono un peso maggiore al rischio di incorrere in un evento negativo, rispetto alla probabilità di procurarsi un evento vantaggioso.

Pertanto, contesti aziendali eccessivamente normativi e sanzionatori in cui le possibilità di “perdita” sono più frequenti ed intense, possono generare un aumento dell’avversione al rischio ed una preferenza difensiva verso lo status quo. Fino al paradosso, evidenziato dal “ritualismo” di R. K. Merton, in cui la conformità alle norme diviene interesse primario a scapito degli obiettivi stessi dell’organizzazione.

Gli studi delle deviazioni comportamentali sul Management d’impresa citano numerosi altri esempi, quali l’overconfidence, il bias di conferma e l’effetto framing, evidenziandone alcune conseguenze penalizzanti: lenta risposta al cambiamento competitivo, non corretta valutazione del rischio, perdita di quote di mercato ed altro (Miglietta e Battisti, 2011).

VERSO UN NUOVO MODO DI FARE IMPRESA?

Sembra legittimo, dunque, mettere in discussione l’idea di un’impresa sviluppata in un contesto economico più simile alla prima, che alla seconda metà della storia contemporanea. Il che implica un passaggio da una logica razionale e riduzionista della realtà, ad una visione che tenga maggiormente in considerazione le complessità insite nell’imprevedibilità e nell’irrazionalità dei comportamenti umani.

L’impresa, secondo tale prospettiva, ha poco a che vedere con l’organizzazione scientifica Tayloristica, in cui la scomposizione del lavoro in piccole parti, da coordinare con rigide prescrizioni, presupponeva un futuro semplice, lineare e deterministico. La stessa, invece, è configurabile come un coacervo di atteggiamenti imprevedibili, di condizionamenti, di pregiudizi che, nelle loro infinite interazioni, determinano un comportamento globale diverso dal comportamento dei singoli elementi che la costituiscono.

Per dirla in altri termini l’organizzazione corrisponderebbe, piuttosto, ad un sistema complesso, come enunciato nell’omonima teoria, in cui le proprietà collettive e di cooperazione realizzano un comportamento “emergente”, che non coincide con la somma razionale del comportamento dei singoli Un tipico esempio è dato dalla rete neurale: il comportamento di un singolo neurone è probabilmente bene compreso e prevedibile, lo stesso non può dirsi del sistema composto da miliardi di neuroni che interagiscono nel nostro cervello, creando coscienza ed intelligenza Secondo tale teoria, sistemi complessi osservabili in fisica, in biologia, in medicina e nella stessa economia, risolvono problemi in modalità “adattiva”, ovvero sfruttando le capacità dal basso, in una logica auto-organizzata, e non attraverso la competenza esclusiva di un “centro direzionale” (Johnson, 2004).

Caratteristica affascinante dei sistemi complessi è che essi “imparano costantemente attraverso una continua riorganizzazione interna: non sono controllati centralmente, ma adattano i propri comportamenti in relazione ai mutamenti che avvengono sia internamente tra gli agenti che li compongono, sia esternamente nel contesto in cui sono inseriti. Ciò consente loro di evolvere incessantemente nel tempo pur mantenendo una propria coerenza, che potremmo definire come identità dell’intero sistema, senza perciò disintegrarsi.” (De Simone, 2016).

Un’angolatura che sovverte l’archetipo dell’organizzazione d’impresa e che sta ispirando, da alcuni anni, una varietà interessante di sperimentazioni: Open Leadership, Flash Organization, Olocrazia. Nuovi paradigmi che realizzano, con diverse sfumature, sistemi in grado di auto-organizzarsi sul “come” raggiungere gli obiettivi, facendo emergere “l’intelligenza distribuita, ovvero le capacità (intellettuali, operative, emotive, emozionali) in rete degli esseri umani.” (De Toni, 2011). Sistemi in cui autorità e decisioni non provengono dall’alto ma sono distribuite fra i vari team di lavoro, che mutano forma repentinamente, adattandosi di continuo ai cambiamenti del contesto esterno. Ed in cui il ruolo della leadership non scompare affatto ma si trasforma in un ambiente dove emergono nuovi valori come la visione condivisa, la compartecipazione, l’intra-imprenditorialità e la co-evoluzione.

Contesti che tentano di delineare il futuro delle organizzazioni, tra sperimentazioni integrali, parziali, efficaci ed anche, in alcuni casi, discutibili. Ma aldilà degli scetticismi e delle obiezioni di fondo (alcuni spunti in Bernstein et Al., 2016 e Sutton, 2016), da accogliere in senso costruttivo nella ricerca del giusto gradiente, appare lodevole il tentativo di costruire un “nuovo modo di fare impresa” più etico, inclusivo e resiliente.

È importante continuare ad investire tempo e risorse in quest’ambito, sfruttando, ancor di più, anche il contributo delle scienze cognitive e comportamentali, la cui potenza di indagine è in grado di rimettere al centro le interazioni umane nella loro reale natura, fatta di intelligenza, competenza ma anche di limitazioni ed irrazionalità.

Bibliografia

  1. Bernstein E., Bunch J., Canner N., Lee M. (2016). “Beyond the Holacracy Hype.” Harvard Business Review. Organizational Structure. From the Magazine (July–August 2016) https://hbr.org/2016/07/beyond-the-holacracy-hype
  2. Ceschi Et Al. (2012). Un Approccio Empirico Per Una Tassonomia Delle Euristiche.
  3. Cipolla, M. (1974). Storia Economica dell’Europa Pre-Industriale. Il Mulino, p. 131.
  4. De Simone, M. (2016). “Europa come sistema complesso.” Polis Europa. Accademia Europea di Bolzano. https://www.academia.edu/30879061/Europa_come_sistema_complesso
  5. De Toni, A. F. (2011). Teoria della complessità e implicazioni manageriali: verso l’auto-organizzazione.  https://www.researchgate.net/publication/277193911_Teoria_della_complessita_e_implicazioni_manageriali_verso_l’auto-organizzazione
  6. Egidi, M. (2005). Errori e fallibilità. Networks 2005/5 “Errori nel Ragionamento /Mistakes in reasoning”. http://www.dif.unige.it/epi/networks/05/egidi.pdf
  7. Ferrara, A. (2020). “Ufficio, i capi non sono tutti uguali. Ecco sette identikit del Boss e come lavorarci (senza soccombere).” Ansa. https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/societa_diritti/2020/06/14/ufficio-i-capi-non-sono-tutti-uguali.-ecco-sette-identikit-del-boss-e-come-lavorarci-senza-soccombere-_61a12169-4ad7-41b8-955d-396fbc2705fa.html
  8. Johnson, S. (2004). La nuova scienza dei sistemi emergenti. Garzanti, p. 16.
  9. Mariani, M. (2009). Decidere e negoziare. Concetti e strumenti per l’azione manageriale. Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano.
  10. Miglietta, N. – Battisti, E. (2011). Impresa, Management e Distorsioni Comportamentali. Un approccio cognitivo alla gestione dell’impresa. L’Ego Biased Learning Approach (EBLA). G. Giappichelli Editore – Torino.
  11. Rifkin, J. (2014). La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del «commons» collaborativo e l’eclissi del capitalismo. Mondadori.
  12. Salvati, M. (1993). “Divisione del Lavoro.” Enciclopedia delle scienze sociali. Treccani https://www.treccani.it/enciclopedia/divisione-del-lavoro_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/
  13. Sutton, B. (2016). “Hierarchy is Good. Hierarchy is Essential. And Less Isn’t Always Better.” – Stanford University 2016 – https://ecorner.stanford.edu/articles/hierarchy-is-good-hierarchy-is-essential-and-less-isnt-always-better/
  14.  “Ciao, ciao boss. Arriva Holacracy, l’organizzazione di lavoro dove non ci sono capi” – R. Rijtano, Repubblica Tecnologia https://www.repubblica.it/tecnologia/2016/04/02/news/nessuna_gerarchia_autorita_e_responsabilita_distribuite_c_e_holacracy_la_forma_d_organizzazione_aziendale_dove_non_ci_son-134557047/
  15. “Olacrazia, ecco l’azienda senza capi e cariche. Ma 1 dipendente su 10 lascia” – A. Magnani, Il Sole 24 Ore Economia – https://st.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2015-05-25/olacrazia-ecco-azienda-senza-capi-e-cariche-ma-1-dipendente-10-se-ne-va-070916.shtml?uuid=ABejR1lD).

L’autore

Giacomo Brunaccini è un manager di impresa, con una lunga esperienza maturata presso istituzioni finanziarie e multinazionali della consulenza direzionale.
È autore di diversi articoli in cui affronta temi di attualità, cultura ed economia, secondo una prospettiva che concilia l’approccio scientifico con una visione storico-umanistica della conoscenza.

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