Fact checking di un’euristica dell’affettivitàTempo di lettura stimato: 7 min

di Eleonora Maglia

In questo periodo di pandemia, si è ben potuto vedere come l’affidarsi a informazioni non complete – o peggio non verificate- abbia comportato conseguenze dannose, ascrivibili a tempi di reazione e di allocazione delle risorse non efficienti. Molto di tutto ciò è dipeso certamente dal fatto che le decisioni politiche, sanitarie e anche personali sono state prese in condizioni di incertezza prima e di emergenza poi, comunque su aspetti per cui un’esperienza diretta e pregressa non era disponibile (e dalla letteratura e dagli esperimenti di Economia Comportamentale si conosce puntualmente quanto la bontà dei sistemi decisionali umani è tutt’altro che perfetta anche nelle condizioni e nelle situazioni ordinarie).

Ora, al di là di quanto è stato, occorre soprattutto definire le modalità della prossime fasi di affrontamento al Covid-19 e capire come gestire l’apertura delle attività economiche, che si è fatta sempre più necessaria alla luce dell’arrivo della stagione estiva e visti gli andamenti delle previsioni ascritte ad un lockdown prolungato (ovvero la chiusura di parte delle attività economiche e produttive, che, per il Fondo Monetario Internazionale, comporterà una contrazione del Pil globale del 3 per cento e una recessione più grave di quanto innescato dalla crisi finanziaria del 2008). Tra le ipotesi, i decisori politici e gli organi scientifici hanno vagliato soluzioni differenziate (ad esempio per Regioni, a cui è stata affidata un’autonomia decisionale), dove uno degli aspetti chiave risulta soprattutto valutare il grado di fragilità rispetto al virus delle diverse categorie da rimettere in campo.

Photo by Tim Mossholder on Unsplash
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Per capire puntualmente dove si collocano le maggiori probabilità di contagio e di letalità è certamente fondamentale ricorrere a fonti accreditate e affidabili, tuttavia, come si argomenterà nel prosieguo, occorre anche corroborare i dati sui casi Covid-19 con ulteriori statistiche, ascrivibili anche ad altri ambiti scientifici. Infatti, come mostrato in questo articolo utilizzando uno strumento giornalistico (il fact checking, ovvero la valutazione attraverso elementi suscettibili di misurazione trasparente e imparziale dell’accuratezza delle dichiarazioni di personaggi pubblici e di organizzazioni influenti nel dibattito pubblico, tanto da essere potenzialmente in grado di influenzare l’agenda politica ed economica del Paese), affidarsi, per quanto in buona fede, ad una sola fonte o ad un singolo elemento di una statistica anche seria, potrebbe tradursi in conseguenze negative che andrebbero addirittura nella direzione opposta a quella auspicabile.

Focus sulle conseguenze di genere del Covid-19

Come è noto, il dibattito su come organizzare la riapertura ha avuto un avvio istantaneo al lockdown ed è stato anche acceso in alcune circostanze (si pensi alle reazioni dei Sindacati nel momento della definizione dei settori da considerare essenziali). Sostanzialmente -e comprensibilmente- le varie categorie sociali hanno sostenuto le proprie ragioni quantificando le conseguenze negative delle chiusure, della soppressione della mobilità e dell’isolamento forzato (secondo le previsioni di Confindustria, ad esempio, se le quattro principali Regioni del Nord che rappresentano il 45 per cento del Pil italiano non ripartiranno nel breve periodo, il riavvio del motore produttivo potrebbe venire irrimediabilmente compromesso).

Tra le prime categorie che sono state considerate idonee ad una ripartenza anticipata si trovano ad esempio le lavoratrici, per la circolazione della notizia che i dati dell’Istituto Superiore di Sanità indicano le donne come soggetti caratterizzati da una minore propensione al contagio e un tasso di letalità più basso. Nel corso di un’intervista a DiMartedì del 24 marzo (data immediatamente successiva al lockdown), anche la nota virologa Ilaria Capua ha proposto che “tra le strategie di migrazione dal contagio, si potrebbe pensare, quando si ripopolerà gradualmente la forza lavoro, di usare le donne un po’ come se fossero dei semafori rossi, perché ad oggi sembra si infettino meno”.

Photo by Ewien van Bergeijk - Kwant on Unsplash
Photo by Ewien van Bergeijk – Kwant on Unsplash

Su un totale di 124.500 casi diagnosticati, in effetti, il 53,1 per cento appartiene al genere maschile e, tra i deceduti positivi, sono ancora gli uomini ad essere maggiormente presenti. Allo stato attuale delle conoscenze sul virus, i motivi di questi dati sono stati sostanzialmente ascritti a componenti biologiche e comportamentali. Così, risulterebbero protettivi per il genere femminile una serie di elementi già noti come le differenze funzionali del sistema immunitario, il diverso equilibrio ormonale, la differente incidenza tra fumo e comorbilità, oltre all’atteggiamento mediamente più attento nei confronti della prevenzione sanitaria.

Tuttavia, un’analisi dei dati per fasce di età e dei livelli di occupazione restituisce una situazione differente, in cui le donne sono colpite tanto quanto -se non di più- gli uomini. Al di là delle percentuali complessive, infatti la distribuzione dei casi e dei decessi Covid-19 per genere e per fasce di età decennali mostra che nelle fasce di età 20-29 anni; 30-39 anni; 40-49 anni e 90+ anni il numero di casi di genere femminile è superiore all’equivalente maschile.

Se nella fascia di età superiore a 90 anni, la presenza di un numero di donne più che doppio rispetto al numero degli uomini viene spiegata con la struttura demografica della popolazione, le cause di maggior contagio tra chi ha un’età compresa tra i 20 e i 49 anni potrebbero essere ascrivibili al profilo occupazionale. Infatti, le fasce di età in cui sono le donne ad essere a maggior rischio sono anche le fasce di età in cui il tasso di occupazione femminile e maschile sostanzialmente coincidono e, in effetti, i dati Istat sul tema mostrano che, a fronte di un prevalenza nel mondo del lavoro degli uomini per ogni età, il gap occupazionale di genere segue un andamento crescente per numero di anni nel corso dell’età lavorativa (è minimo tra i 25 e i 34 anni, contenuto fino ai 54 anni e massimo oltre i 55 anni).

Nelle fasce d’età con i più alti contagi, inoltre, le donne svolgono per lo più attività considerate fondamentali a seguito del lockdown. Analizzando le comunicazioni obbligatorie che riportano i codici Ateco, si nota infatti come se i più giovani prevalgono nelle attività non essenziali (come la ristorazione e i servizi turistici), le donne sono invece molto presenti nelle attività essenziali (come il lavoro sanitario e di cura).

Così, da un lato i casi femminili Covid-19 positivi in numero inferiore si spiegherebbero con una minore esposizione al contagio dovuta allo svolgimento di un’attività quotidiana che in una certa fascia d’età risulta svolta mediamente perlopiù in casa e, d’altro lato, il numero superiore nelle fasce citate coinciderebbe con un’esposizione maggiore, dovuta ad esempio ad un’attività di tipo assistenziale o di cura.

L’intervento di Ilaria Capua citato si è concluso con un commento ironico (“così voi uomini trovereste l’ufficio pulito o non trovereste la sedia”) che, vista la nota attenzione dell’esperta alla promozione della professionalità femminile, ricorda anche l’euristica dell’affettività (assegnare probabilità relative a determinate conseguenze di una scelta sulla base delle emozioni), ma soprattutto richiama i risaputi livelli -e i problemi correlati- della segregazione occupazionale femminile, un fenomeno che si dimostrerebbe penalizzante per le donne anche durante la pandemia in corso. Con una distribuzione congiunta per genere e per età nei gruppi di attività lavorative che mostra come i due terzi delle donne sono già coinvolte in attività definite essenziali, insomma, siamo grati che l’ipotesi di un rientro indiscriminato di genere sia stato scongiurata, grazie a qualche ragionamento ulteriore: anticipare il rientro delle donne solo in virtù del genere sarebbe stato un vero e proprio azzardo.

Fonti citate

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