Economia collaborativa: fiducia e reciprocitàTempo di lettura stimato: 5 min

di Eleonora Maglia

Esperimenti in laboratorio basati su giochi di teoria comportamentale (come l’ultimatum game, il dictator game e il trust game) mirano a comprendere le preferenze sociali e le azioni messe in atto dagli agenti economici in situazioni di interazione strategica. I risultati riportati dalla letteratura sul tema (Camerer, 2003) mostrano l’emersione di orientamenti basati sull’altruismo (ma anche sull’invidia, in verità) e complessivamente convergenti verso situazioni giuste ed eque. Nella spartizione di somme di denaro rappresentative dell’utilità, infatti, risultano favorite ed accettate le ripartizioni che si avvicinano a divisioni 50-50, di fatto premiando chi mostra buone intenzioni e punendo chi ne mostra di cattive. Questo a conferma dell’evidenza che, nel mondo reale, l’homo oeconomicus (un individuo assolutamente avido ed auto-centrato) non esiste e le persone, invece, hanno a cuore il benessere personale e anche altrui (secondo Adam Smith, la felicità degli altri si rende necessaria per la propria) e provano sentimenti di reciprocità fiduciosa.

Economia collaborativa e spinta alla condivisione

Di tutto ciò, costituiscono un esempio pratico le comunità open source e le piattaforme che utilizzano forme di accesso distribuito a beni e servizi (peer to peer) e realizzano un modello ibrido di mercato collocabile tra proprietà e dono (noto come economia collaborativa o sharing economy). Pensate ad Uber: si tratta di un’applicazione attuale di un modello di collaborative consumption codificato in letteratura già 40 anni fa (Felson and Spaeth, 1978) e afferente ad un filone di studi che, nel 2009, è valso il Nobel per l’economia a Elinor Ostrom. Secondo la studiosa citata, le situazioni di utilizzo di risorse comuni risultano efficaci quando i confini sono ben definiti. Non è sufficiente, infatti, che i membri di una comunità siano inclusivi e le istituzioni ne avallino l’autodeterminazione, occorre anche che le regole siano chiare e che i meccanismi di comunicazione, di monitoraggio e di risoluzione dei conflitti siano efficaci.

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Storicamente, la spinta alla condivisione risulta più marcata in situazioni di ristrettezze economiche (come le Guerre mondiali) o in ambienti ostili (a causa ad esempio di disastri ambientali) e, difatti, le analisi macroeconomiche mostrano uno sviluppo della sharing economy a partire dal 2008, l’anno della crisi finanziaria. A conferma degli orientamenti registrati nell’ambito dell’economia comportamentale citati in apertura, le rilevazioni trasversali sulle motivazioni al ricorso a formule di sharing economy mostrano aspetti estrinsechi (economici o pratici) ma anche intrinseci (sociali o emozionali). Alla domanda “Quali sono le ragioni per condividere?”, comunque, il 53% del campione ha addotto spiegazioni etiche in misura significativamente superiore alle argomentazioni monetarie (Burnett, 2016).

Come classificare l’economia collaborativa?

Visto il numero delle combinazioni collaborative possibili, di fatto, le classificazioni della sharing economy sono molteplici (Frenken et al., 2015; McLaren e Agyeman, 2015) e prendono in considerazione diversi aspetti: dai soggetti coinvolti agli oggetti interessati, includendo anche elementi della teoria degli insiemi. I beni scambiati possono essere infatti fisici ma anche immateriali (servizi e competenze), lo scopo della piattaforma può essere sia for profit che non profit e le relazioni avvengono anche tra consumatori (C2C) e non solo tra produttore ed utilizzatore (B2C). Complessivamente, dai dati del Pew Research Center, risulta che in America le piattaforme sono utilizzate da 27 milioni di individui, per lo più per l’acquisto dei beni usati (50% dei casi); mentre, in Italia, gli accessi sono principalmente indirizzati a forme di residenzialità temporanea e servizi di mobilità (car pooling e bike sharing nel 20% dei casi). Il coinvolgimento al fenomeno appare inversamente correlato all’età –il gruppo più rilevante di utilizzatori è senz’altro costituito dai giovani tra i 18 e i 35 anni (48% del totale).

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I modelli di business che di fatto prevalgono (service fee, subscription fee, membership plus usage, two-sided market) si basano su un contributo parametrato rispetto al valore monetario del bene scambiato o su un abbonamento fisso o variabile. L’accesso alla comunità tuttavia può essere anche gratuito, quando la piattaforma si mantiene con gli introiti degli inserti pubblicitari postati sul sito. Per quanto riguarda il volume delle transazioni, poi, il trend è in aumento (con tassi di crescita pari al 77% nell’ultimo biennio) e le stime sull’utilizzo futuro sono promettenti (il 45% degli intervistati dichiara che ne intensificherà il ricorso). Dai dati disponibili si proietta per la sharing economy un valore economico complessivo di 335 miliardi di dollari nel 2025.

Per saperne di più sull’economia collaborativa.

Per sapere come progettare operativamente delle sperimentazioni collaborative e condivise, un’utile lettura è Sharing economy. Perché l’economia collaborativa è il nostro futuro di Davide Pellegrini edito da Hoepli. Si tratta di una pubblicazione snella ma significativa, che offre un nuovo impulso alla componente altruistica degli attori economici (spiega bene come “la sharing economy ha il potere di ricostruire i rapporti tra le persone e di unirle sui temi dell’urgenza e del cambiamento, riesce a mettere in contatto tra loro le diversità e a restituire un senso di gruppo”, p.130). Inoltre, l’autore, presentando al lettore (sicuramente homo [non] oeconomicus) un valido vademecum in risposta a tutti gli elementi che possono inibire l’innovazione, contribuisce efficacemente alla corretta comprensione e al pieno sviluppo della sharing economy. Trattandosi di un ambito caratterizzato da asimmetria informativa (nella transazione una parte ha a disposizione maggiori dati ed elementi più precisi rispetto alla controparte), occorre ad esempio sapere che sono particolarmente necessarie delle attività di segnalazione (signaling), esplicitabili con sistemi di verifica dell’identità o sistemi di recensioni per la costruzione della reputazione.

Così, anche in virtù di una corretta informazione di tipo divulgativo sul tema, l’auspicio in proposito è che, in futuro, sia possibile documentare e analizzare molti progetti collaborativi di alto contenuto sociale, come Eppela, il sito di crowdfunding che raccoglie fondi on line anche per contribuire a finanziare progetti di inclusione e riscatto di categorie fragili o a rischio di povertà. Tutto ciò grazie a versamenti anche di modesta entità effettuati da singoli cittadini e da comunità locali e, con collaborazioni white label, anche da grandi aziende.

Bibliografia

  1. Camerer C. F., 2003, Behavioral Game Theory. Experiments in Strategic Interaction, Princeton University Press
  2. Felson M. and Spaeth J. L., 1978, Community Structure and Collaborative Consumption. A Routine Activity Approach, American Behavioral Scientist, 21, 4, 614-624
  3. Freken K. et al., 2015, Smarter Regulation for the Sharing Economy, The Guardian
  4. McLaren D. and Agyeman J., 2015, Sharing Cities: A Case for Truly Smart and Sustainable Cities, Cambridge, MIT Press
  5. Smith A., 1776, An Inquiry into the Nature and Cause of the Wealth of Nations

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