Il lato oscuro del groupthinkTempo di lettura stimato: 6 min

di Valeria Amata Giannella

Il 17 Aprile 1961 il tentativo di invasione della ‘Baia dei Porci’ messo in atto da un gruppo di esuli cubani e di mercenari, addestrati dalla CIA, che progettavano di conquistare Cuba con lo scopo di far cadere il regime di Fidel Castro, risultò essere “un fallimento perfetto”.

Il mancato arrivo delle navi aventi i rifornimenti necessari e la cattura di 1000 invasori sopravvissuti ai precedenti attacchi cubani costarono più di 50 milioni di dollari di aiuti al governo degli Stati Uniti d’America

Perché, quindi, uomini di così elevato intelletto, intelligenza e concretezza come il Presidente dell’allora Casa Bianca, John Kennedy, i membri dell’Aeronautica Americana e la Harvard Business School, furono così “leggeri nel continuare questa fallimentare missione”?
Lo Psicologo di Yale Irving Janis (1971, 1982) identificò questo ed altri fenomeni di scelta collettiva come esempi di Groupthink. questi si verificano quando: 

burnout

I membri di un piccolo gruppo coeso tendono a mantenere lo spirito di corpo sviluppando inconsciamente una serie di illusioni condivise e di norme relative che interferiscono con il pensiero critico e con la verifica della realtà (Janis, 1982, p.35). 

Il termine indica perciò un modo di pensare che le persone adottano quando sono profondamente coinvolte in un gruppo altamente coeso, dove la tendenza a raggiungere l’unanimità prevale sulla motivazione a valutare realisticamente alternative più funzionali di azione (Janis, 1982, p.9). 

Janis sosteneva anche che questa tendenza non risulta essere un fenomeno isolato a un gruppo decisionale in un particolare momento e all’interno di una specifica cultura, ma caratterizza ogni tipo di gruppo e mostra ben specifici sintomi. Due delle caratteristiche fondamentali del Groupthink sono la tendenza dei gruppi a polarizzare e a consensualizzare – in modo univoco – i membri di quel gruppo verso un’unica visione comune.  

brainstorming

A differenza di quanto sosteneva Janis, però, le decisioni di gruppo non stravolgono di certo l’intelligenza dei suoi membri, ma anzi esprimono le finalità collettive del gruppo per raggiungere gli obiettivi nel modo più rapido ed efficace possibile. Per la Psicologia Sociale moderna, quello su cui si basano realmente i processi decisionali di gruppo sono relativi ai meccanismi di formazione stessa del gruppo e della propria identità sociale (Turner, 1991; Turner e Oakes, 1986, 1989; Wetherell, 1987). Infatti, il fatto che l’interazione sociale possa polarizzare la posizione dei membri può derivare direttamente dal principio di categorizzazione del sé, cioè dalla tendenza di attribuire alla nostra identità una specifica categoria di appartenenza. 

Questa automatica tendenza di legare le proprie caratteristiche – e le caratteristiche degli stimoli esterni – a specifiche categorie, permette di collocarci all’interno di un contesto sociale specifico insieme ad altri simili a noi e differenziandoci da altri che invece fanno parte di gruppi e categorie diverse. 

Essere quindi parte di una categoria, vuol dire condividere con gli altri membri caratteristiche in comune e vuol dire anche fare in modo di risolvere adeguatamente eventuali differenze all’interno di quella categoria. Fondamentalmente questo accade anche per opinioni, idee e scelte di comportamento. Ecco, quindi, che si dà vita ad un processo di influenza sociale reciproca, nella quale gli individui che si categorizzano nei termini di un’identità sociale comune discutano e negoziano le loro differenze con l’aspettativa – e la pressione motivazionale – di raggiungere un accordo comune (Haslam, Turner, OakesMcGarty et al. 1998; Postmes e Spears, 1998). 

Coerentemente con questo, quando è saliente un’identità sociale condivisa, la discussione di gruppo dovrebbe generalmente condurre a convergere verso una posizione prototipica e tale esito è sicuramente prevedibile quando l’ingroup si confronta con un outgroup altamente saliente (per esempio in condizioni di competizione sociale). 

Una spiegazione del Groupthink

Il gruppo è quindi polarizzato, le sue idee condivise consensualmente, i suoi membri condividono informazioni rilevanti per la loro identità condivisa, sostengono idee che sono in linea con le norme del proprio gruppo e respingono quelle che provengono dall’esterno e hanno un forte senso di “noi” e di “loro”, lavorando per sviluppare una concezione positiva di loro stessi e degli altri membri. 

meeting

Queste caratteristiche di base diventano notevolmente più pronunciate in condizioni di identificazione sociale rafforzata. Nel modello del Groupthink basato sull’identità sociale, degli psicologi Turner e Pratkanis (1998), viene preso in considerazione il fondamentale ruolo che può assumere una minaccia – percepita o reale – di un outgroup. Questa minaccia aumenta la volontà del gruppo a mantenere “a tutti i costi” la propria immagine positiva integra. I costi a cui ci si riferisce non sono legati al modo in cui il gruppo pensa (quindi al processo stesso di Groupthink e alle decisioni di gruppo), ma piuttosto a quello che pensa. 

Il pensiero di gruppo può anzi portare a esiti fortemente positivi, non solo legati ai risultati del problema specifico, ma anche e soprattutto legati a dinamiche di gruppo come la coesione, il senso di appartenenza, l’autostima e il supporto. Come molti altri prodotti collettivi, il Groupthink sfrutta e sviluppa l’essenza del gruppo in modi che sono efficienti e creativi da un punto di vista psicologico e che arricchiscono socialmente le fondamenta stesse del gruppo. 

Più che chiedersi, quindi, quali sono gli errori psicologici che guidano decisioni sbagliate, bisogna chiedersi quali errori sociali rivelano i processi di decisione razionale. 

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Ulteriori letture suggerite: 

  1. Janis, I.L. (1982), Groupthink: Psychological Studies of Policy Decisions and Fiascoes, Houghton Mifflin, Boston 
  2. Turner, M.E.; Pratkanis, A.R. (1998b), “Theoretical perspectives on groupthink: a twenty-fifth anniversary appraisal”, Organizational Behaviour and Human Decision Processes 
  3. Turner, J.C. (1991), Social Influence, Open University Press, Milton Keynes 

Riferimenti bibliografici: 

  1. Haslam, S.A. (2015), Psicologia delle Organizzazioni, Maggioli Ediorepp. 167-201 
  2. Haslam, S.A., Turner, J.C., Oakes, P.J., McGraty, C. e Reynolds, K.J. (1998) ‘The group as a basis for emergent stereotype consensus’, European Review of Social Psychology9, 203-39 
  3. Janis, I.L. (1971) ‘Groupthink’, Psychology TodayNovember, 43-6, 74-6 
  4. Janis, I.L. (1982), Groupthink: Psychological Studies of Policy Decisions and Fiascoes, Houghton Mifflin, Boston 
  5. Postmes, T., Spears, R. e Lea, M. (1998) ‘Breaching or building social boundaries? SIDE-effects of computer-mediated communication’, Communication Research, 25, 689-715. Pratt, M.G. e Foreman, P.O. (2000) ‘Classifying managerial responses to multiple organizational identities’, Academy of Management Review25. 18-42 
  6. Turner, J.C. (1991), Social Influence, Open University Press, Milton Keynes 
  7. Turner, J.C., Oakes, P.J. (1986), ‘The significance of the social identity concept for social psychology with reference to individualism, interactionism, and social influence’, British Journal of Social Psychology25, 237-52 
  8. Turner, J.C., Oakes, P.J. (1989), ‘Self-categorization theory and social influence’, in P.B. Paulus (ed.), The Psychology of Group InfluenceHillsdale, NJ: Erlbaum. Vol. 2, pp. 233-75 
  9. Turner, M.E. e Pratkanis, A.R. (1998°) ‘A social identity maintenance model of groupthink’, Organizational Behaviour and Human Decision Processes, 2/3, 2010-35. Turner, M.E. e Pratkanis, A.R. (eds) (1998b) ‘Theooretical perspectives on groupthonk : a twenty-fifth anniversary appraisal’, Organizational Behaviour and Human Decision Processes2/3 
  10. Wetherell, M.S. (1987) ‘Social identity and group polarization’, in J.C. Turner, M.A. Hogg, P.J. Oakes, S.D. Reicher e M.S. Wetherell, Rediscovering the Social Group: A Self-categorization TheoryOxford: Blackwell, pp, 142-70 

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